di Roberta
(English below the cut)
Questo articolo riprende un post apparso sulla nostra pagina Instagram a marzo 2023 e chi l’ha scritto aveva deciso di rimanere anonimə. In questa sede, la persona ha deciso di esporsi col suo nome e di ampliare, modificare, rivedere il tema trattato. Confidando nella cura e nell’ascolto di chi ci segue e legge, vi affida i suoi pensieri e chiede di evitare facili giudizi.
Inoltre, tutte le immagini presenti in questo articolo sono dipinti di Ron Hicks, prese su Pinterest.
Le persone sono caleidoscopi di identità, forme in perenne mutamento e oggetto di negoziazione per chi le incarna, al fine di ottenere una personalità coerente.
Tuttavia, può capitare che alcune di queste identità entrino in contraddizione, secondo la percezione di chi le vive in prima persona. Allora sorgono una serie di domande: chi sono? Perché esistono questi lati di me che anche io fatico ad accettare? C’è un modo per integrarli armoniosamente? E se sì, come?
Sono una donna, attivista e transfemminista intersezionale, ho vissuto sulla mia pelle e nella mia anima traumi e difficoltà, ma – fortunatamente – anche tante gioie, mi sono ritrovata davanti a sfide piccole e grandi che a volte mi hanno lasciato strascichi tuttora visibili, in primis a me, che saprei identificare dove mi sono fatta ogni cicatrice e come ne sono guarita. In questo momento, da ormai più di un anno, ho inglobato una nuova e inattesa identità, quella che comunemente definiamo “l’amante”. Il mio partner ha una partner e lei non sa di me.
A causa di continue delusioni, nel corso degli anni mi sono chiusa a riccio e ho allontanato ogni tipo di contatto che percepivo troppo ravvicinato, intimo; inoltre, ho dovuto fare i conti con l’accogliere una parte di me che mi era sempre stata chiara, ma per la quale non possedevo le parole giuste per definirla, ovvero l’asessualità. Mi situo nello spettro asessuale: prima mi definivo asessuale tout court, oggi invece, anche grazie a questa persona che è entrata nella mia vita e per la quale ho provato per la prima volta in vita mia attrazione sessuale (oltre a numerose altre), le mie etichette sono cambiate.
Buffo, noto ora mentre scrivo, come lo slittamento di una parte di me sia influenzato e influenzi quell’altra parte di me che è oggetto di questo scritto: allora, sento inscritta dentro e su di me, l’intersezionalità nel vero senso del termine, ed è la mia lente per affacciarmi al mondo, e quindi anche a me stessa, e la userò anche in questa sede.
Facciamo un passo indietro: sono l’amante, ripeto, e sento che questa definizione mi sta stretta, troppo stereotipata per chi mi sento, per chi sono diventata. Una pericolosa vertigine di consapevolezza mi pervade: allora non sono più femminista? Sto occupando spazi non miei? Scava e riscava, sono venute alla luce diverse questioni.
GELOSIA E RELAZIONI MONOGAME: EFFETTO DEL PATRIARCATO?
In questo lungo percorso di consapevolezza transfemminista, ho letto tantissimi libri – il mio nutrimento imprescindibile e il mio porto sicuro – e ascoltato tantissime persone – soprattutto sui social – e, tra le altre cose, mi sono imbattuta nei concetti di poliamore e non monogamie etiche, ponderando vari punti di vista e chiedendomi, come per ogni aspetto nuovo che scoprivo, se poteva fare per me.
In queste modalità di relazione, lз partner sanno dell’esistenza deз metapartner (cioè lз partner deз propriз) e lo accettano – anche se, a quanto ho capito, non sempre senza difficoltà. Ma nel mio caso siamo in presenza di una relazione monogama, eredità, cruccio e necessità del sistema patriarcale invisibile e invasivo, a tal punto che nella società occidentale è dato per scontato che l’amore debba essere vissuto solo in questo senso (ed è anche il motivo per cui di poliamore, negli ambienti mainstream, si parla poco e male).
Se è assodato che la relazione del mio partner con la sua partner è monogama, non era scontato che dovesse esserlo anche con me, e infatti all’inizio del nostro rapporto era una possibilità che avevamo sondato. Tuttavia, l’evoluzione del nostro rapporto e del nostro sentimento ci ha portati a desiderarci “in esclusiva”, a volere una relazione monogama. Le due situazioni sono pertanto incompatibili.
Io desidero fortemente una relazione esclusiva con lui, ma non posso fare a meno di chiedermi (cit.): questo mio desiderio è mio per davvero o è solo il frutto di una convenzione che ho interiorizzato con il mio semplice esistere in questo mondo dominato dal patriarcato?
Questa è la prima domanda a cui non riesco a dare risposta, anche se gira spesso nella mia testa.
Direttamente legata a questo aspetto c’è la questione della gelosia. Brigitte Vasallo, attivista e scrittrice femminista e poliamorosa (lo specifico perché, per capire la gelosia, mi sono dovuta avventurare in un labirinto di decostruzione dove ho incontrato anche questa prospettiva), afferma (https://www.cuerpomente.com/blogs/brigitte-vasallo/superar-celos-tipo_1894) che la gelosia è un po’ come la spia dell’auto che si accende di colpo: non importa se è un problema del veicolo o di chi lo guida, c’è un problema e va riparato. Ugualmente, la gelosia è un sintomo della paura, paura di perdere l’altra persona – torno alla relazione monogama che è quello che mi interessa qui –, e come tale va analizzata, compresa, accolta.
Non è nemmeno la manifestazione direttamente proporzionale dell’amore e di quanto ce n’è (che poi da quando si può quantificare l’amore? Cos’è, una merce in vendita sulla bancarella del mercato?), nonostante sia così che il sistema affettivo maggioritario vuole farcela passare. È il risultato della concezione del possesso dell’altra persona, all’interno del sentimento amoroso che, anche linguisticamente, diventa un campo di battaglia.
Ma se amare equivale a possedere chi ci sta di fronte, in una gerarchia intercambiabile tra le due persone coinvolte nella relazione, allora che ne è del femminismo, che è parità e, per citare Márcia Tiburi, «il contrario della solitudine»? Io la mia gelosia la sento, la conosco, sta là, nonostante le consapevolezze.
Eccola, allora, la domanda numero due: se provo gelosia, posso ancora dire di vivere e operare in ottica femminista?
SOLO BRICIOLE PER NOI: COMPETITIVITÀ FEMMINILE
Come accennavo poco fa, tendiamo a parlare di amore e relazioni utilizzando il campo semantico della guerra: conquistiamo una persona, tale individuo mi ha colpitə al cuore, lottiamo per una relazione, del resto «in amore e in guerra tutto è permesso».
Sospetto che ne parliamo così proprio in virtù del dare per scontato la monogamia delle relazioni, da cui deriva un aspetto fondamentale, che interseca anche questioni prettamente di genere.
Torno un attimo a me, a noi. Sono una donna, la persona partner del mio partner è una donna. In un certo senso, lottiamo per le attenzioni e l’amore di questa persona, un uomo. Ecco servita la competitività femminile.
Nella scala dei privilegi, sappiamo tuttз chi occupa l’apice, chi detta legge, chi distribuisce ruoli e amministra il potere a suo piacimento e secondo un libero arbitrio i cui criteri fatico davvero a comprendere. Cosciente che l’identità di questo dittatore sociale sia anch’essa formata da intersezioni – considerate “normali” e quindi date per scontato –, vorrei qui attenermi al genere: l’uomo (cis) è in alto, mentre la donna è in basso. Il simposio maschile si spartisce posti di governo, turni di parola, occupazioni lavorative e così via e, se deve scegliere, lo fa sempre nel convivio di uomini, raramente tra le donne. Perciò, una volta finiti quegli spazi, queste ultime si devono accontentare di quel poco che è rimasto, che non basta per tutte, le quali pertanto entrano in competizione tra loro.
La società capitalista e la sua perenne competizione invadono anche le relazioni e, nel mio caso, creando anche delle contraddizioni. Se la sorellanza è la base del femminismo, mi chiedo, può esistere tra me e lei? E se sì, in che modo, dopo quanto tempo da un’eventuale rottura, dopo quali processi di guarigione e introspezione?
Io non conosco di persona la partner del mio partner, solo di vista quanto basta per riconoscerla, per riconoscerci, e credo che questo riconoscimento che passi anche dalla prima consapevolezza che abbiamo di chi ci sta di fronte, il suo genere (non vale in tutti i casi, lo so, ma qui sì). Non sapendo che persona sia per esperienza diretta, non posso – e non voglio – augurarle alcun male, anzi, cosciente di quanto farsi strada in questo mondo in quanto donne non sia facile e sentendola come mia sorella all’interno di questo femminismo (che sa accogliere anche chi subisce le conseguenze del patriarcato e, nonostante ciò, si sente distante dai suoi valori), vorrei che fosse soddisfatta e felice in ogni aspetto della sua vita.
Come possiamo conciliare il fatto che se lui sta con lei io ne soffro, ma se lui sta con me è lei a soffrirne? Mi chiedo: perché questa felicità deve derivare dall’esclusione? E ancora, possiamo considerarci sorelle, alleate di una lotta più grande?
EGOISTA
Questa parola me l’ha detta mio padre durante una lite furiosa su quello che sto vivendo. Se l’insulto di mia madre, puttana, mi è risuonato subito come esempio di slut shaming, che ho imparato a riconoscere, comprenderne le cause e, pertanto, a distanziarlo in un certo senso, essere definita egoista mi ha colpita in modo particolare.
Sono sempre stata una persona con la cosiddetta “sindrome da crocerossina” e nella mia vita ho spesso e volentieri messo a tacere i miei bisogni per soddisfare quelli altrui (e continuo a farlo, anche se meno), ma grazie alla psicoterapia mi stavo (mi sto) riprendendo i miei spazi, quelli che mi sono dovuti. Davvero c’era bisogno di definirmi tale?
Ma i miei ingranaggi mentali si erano già messi in moto, perciò le domande sono venute da sole.
Ciò che si percepisce all’esterno è che io e il mio partner viviamo questa relazione senza pensare alle conseguenze su sua moglie e sui suoi figli. Il che, vi giuro, è quanto di più lontano esista dalla verità: ogni santo giorno questa idea mi giunge dritta, feroce, violenta, e mi destabilizza. E sono anche consapevole che, se in futuro dovessimo ufficializzare il nostro rapporto, mi saranno date delle colpe, dovrò assumermi delle responsabilità morali e tangibili, sia a livello individuale sia a livello collettivo. Potreste chiedervi: perché sei ancora qui? Chi te lo fa fare?
Anche se ammetto di averlo pensato anche io qualche volta in questi lunghi mesi di relazione, la risposta è che non mi è mai accaduto di amare ed essere amata come sta succedendo ora.
Anche qui, ecco l’esclusione: se continuo a mantenere questa relazione, c’è chi soffre (anche nei sospetti e nei dubbi) e ne soffrirebbe nel caso venisse allo scoperto, mentre io sono felice; se scelgo di farmi da parte, sarei ancora una volta io ad aver silenziato le mie necessità e miei desideri, che solo ora stanno parlando forte e chiaro.
Esiste una soluzione in cui nessuna persona possa soffrire? No, sicuramente no, e questo lo vedo anche nel mio partner quando deve nascondere o fingere a proposito di noi, e me ne dispiace e vorrei aiutarlo ad affrontare queste dinamiche con cura e attenzione.
Ma esiste una soluzione in cui si possano ridurre i danni al minimo? Forse sì, ma quale? Un’altra domanda che resta senza risposta.
A MO’ DI CONCLUSIONE
Nel corso di questi pensieri sono emerse tantissime questioni e molte altre saranno rimaste sicuramente fuori, anche se non ne sono consapevole ora. A tutte le domande che mi sono fatta prima, e che mi pongo almeno una volta al giorno, io purtroppo una risposta non ce l’ho. Tuttavia, ho alcune consapevolezze.
Innanzitutto, ho imparato che prendere in mano la propria salute mentale può portare a rivoluzioni concrete: se penso alla me prima della terapia, vedo un animale spaventato e indifeso, a tratti irriconoscibile.
Ma se ho preso coscienza dell’importanza che questo aspetto gioca nelle nostre vite è stato grazie al transfemminismo, al meraviglioso (e talvolta spaventoso) caleidoscopio di elementi che lo compongono e alle lenti cristalline e disincantate con cui osserva il mondo. Forse, senza questo lato di me, non starei nemmeno qui a scrivere e a martellarmi di domande.
Sono infinitamente grata a questo mio valore aggiunto, a tutto ciò che ascolto, leggo, imparo dalle mie sorelle perché è proprio con i suoi mezzi che posso definirle tali e posso guardare la questione da un punto di vista diverso, in cui so che la gelosia, la rabbia, talvolta anche la sensazione di non essere abbastanza e altre emozioni e sensazioni negative non hanno solo un’origine individuale, ma sono effetto, causa, parte di un sistema patriarcale e capitalista molto più grande di me, che ho interiorizzato negli anni.
Perciò, devo questa relazione anche al mio essere femminista. Per aver deciso di viverla all’inizio, per confermare questo sì ogni giorno, per aver compreso l’importanza dell’amore (nel senso più ampio del termine) e sentirmi di poterlo meritare.
Ma anche, e soprattutto, per la persona che mi è accanto, che ha innescato parte di questo cambiamento personale, che ascolta e condivide i miei valori, che, seppur spesso inconsapevolmente, li mette in atto perché li ritiene “normali”, che mi arricchisce la vita (anche di domande, come si è potuto notare) e mi dà prospettive nuove, che mi ha fatto capire nel profondo il senso di vivere in relazione, non solo d’amore, ma in senso lato. Se non fossi chi sono, se non fosse chi è, se non fossimo capaci di guardare oltre le costruzioni sociali che ci incatenano, non ci saremmo sceltз e non ci accoglieremmo come facciamo e il nostro amore non sarebbe così rivoluzionario, al punto da farci sentire comodз e incomodз, spensieratз e responsabili allo stesso tempo.
GELOSIA, COMPETITIVITÀ E RESPONSABILITÀ: QUALCHE MESE DOPO
Dalla scrittura del post per Instagram e dal successivo ampliamento per il collettivo, nella mia situazione personale sono cambiate diverse cose.
In breve, e senza entrare troppo nei particolari per rispetto di tutte le persone coinvolte, ora la partner del mio partner sa di me perché lui glielo ha raccontato e, dopo un periodo turbolento di allontanamenti e riavvicinamenti, per i quali abbiamo sofferto tuttɜ molto, le cose sembrano essersi risolte e lui ha deciso di volere un futuro con me. Non è ancora ufficiale e non c’è stata una separazione definitiva, ma ha espresso chiaramente le sue intenzioni sia con me, sia (soprattutto) con la sua partner.
Come mi sento io in tutto questo?
Sicuramente per me comporta una grande responsabilità. Dovrò mostrare ancora più attenzione a lui, ai suoi sentimenti, ai problemi che inevitabilmente ne conseguiranno – di carattere pratico ed emotivo. Non si tratta di essere la persona o la compagna perfetta o di dimenticare le mie esigenze e i miei desideri, ma di essere in grado di comprendere, accettare e integrare che quello che è stato finora per lui non può dirsi del tutto passato, in primis per la presenza deɜ figlɜ di cui lui rimane il padre e lei rimane la madre, e dopo perché comprendo perfettamente che non smetterà di volerle bene. Ma io, questo, nemmeno glielo chiedo perché mi rendo conto che sarei egoista e gli starei chiedendo di cambiare: e non credo in questo tipo di amore.
Durante questo periodo di transizione, ho spesso sentito di essere persa, che quel sentimento enorme che provavo e che provo per lui dovesse essere un ricordo non riuscivo ad accettarlo. Eppure, capivo il motivo dei suoi allontanamenti, la difficoltà di lasciare tutto e affrontare le conseguenze: perché il suo amore non è mai venuto meno e, suggestione o no, io lo sentivo forte e chiaro, così come la sua confusione. E però, mi dicevo, se qua c’è qualcunə i cui sentimenti devono essere sacrificati, qualcunə per cui non ci sarebbero troppe conseguenze, quellə sono io. Perciò ho cercato sin da subito di adattarmi alla situazione. Non posso negare, tuttavia, che il pensiero che mi fosse stato sottratto qualcosa fosse presente, anche se cercavo di razionalizzarlo, e mi ripetevo che non ero io a dover averlo, ma lei.
E nei suoi confronti, come mi sento? Detto in maniera molto cruda, ma efficace: uno schifo. Mi rendo conto dell’immenso dolore che le sto – le stiamo – procurando per l’urgenza di questo amore, che sentiamo entrambi e a cui abbiamo voglia di dare seguito e concretezza. Come dicevo già in ciò che avevo scritto tempo fa, se sono felice io non lo è lei, se è felice lei non lo sono io (laddove felice si intende a livello sentimentale, non più generale). Anche se questi pensieri non mi lasciano, di una cosa sono certa: sono sempre stata disponibile a incontrarla e parlarci, anche per farmi dire parole che so che mi farebbero male, e comprendo il suo modo di fare attuale perché dettato dalla sofferenza, che l’amore tra il mio partner – che è ufficialmente anche il suo – e me sta causando.
Tutta questa situazione è un dilemma, che va vissuto con responsabilità e impegno da parte di tutte le persone coinvolte, e soprattutto nel massimo rispetto dei sentimenti e delle emozioni altrui. Nella mia vita sono sempre stata guidata dai sentimenti e lo sono anche ora: ecco perché non ho mai detto di no ad ascoltare lui, a farlo tornare nella mia vita, perché la sua assenza mi farebbe più male dell’inevitabile processo di ricostruzione della fiducia in lui che sto affrontando. Credo nella potenza dell’amore, quello che rivela nuove parti di noi, e io da quando lo conosco sto affrontando una riscoperta – o semplicemente una scoperta – di una me che non credevo esistere e che mi piace molto. L’obiettivo, su cui concordiamo, è causare il meno male possibile. Ci riusciremo? Faremo i passi giusti? Non lo so, come non so ancora se tutto questo può coniugarsi col mio dirmi femminista. Non voglio essere la femminista perfetta, però voglio cercare di comprendere quante più istanze possibili, anche se entrano in contrasto con i miei sentimenti e desideri. Questo lo devo a me e alle persone su cui influiscono le mie azioni.
ENGLISH TRANSLATION
Translator: Veronica F.
Editor: Teresa
JEALOUSY, COMPETITIVENESS, AND RESPONSIBILITY: BEING THE LOVER
This article is a revision of a post that appeared on our Instagram page in March 2023, where the author had decided to remain anonymous. In this context, the person has chosen to reveal their identity and to expand, modify, and review the discussed topic. Trusting in the care and listening capabilities of those who follow and read us, they entrust their thoughts to you and ask to avoid easy judgments.
All the images in this article are paintings by Ron Hicks, retrieved from Pinterest.
People are kaleidoscopes of identities, forms in perpetual change and objects of negotiation for those who embody them, to achieve a coherent personality.
However, it may happen that some of these identities come into contradiction, according to the perception of those who experience them firsthand. Then a series of questions arise: who am I? Why do these sides of me exist that I too struggle to accept? Is there a way to integrate them harmoniously? And if so, how?
I am a woman, an activist, and an intersectional transfeminist; I have experienced traumas and difficulties on my own skin and soul, but – fortunately – also many joys. I faced small and large challenges that sometimes left traces that are still visible, first of all to myself, as I could identify where I got each scar and how I have healed from it. At the moment of writing, and for over a year now, I have incorporated a new and unexpected identity, the one commonly known as “the lover.” My partner has another partner, and she does not know about me.
Due to continuous disappointments, over the years, I curled up like a hedgehog and distanced myself from any contact that I felt was too close, intimate; I also had to come to terms with welcoming a part of me that has always been clear to me, but for which I lacked the right words to define it; asexuality. I place myself on the asexual spectrum: before, I used to define myself as asexual tout court, today, however, also thanks to this person who has entered my life and for whom I have felt sexual attraction (among others) for the first time in my life, my labels have changed.
Funny, I am realizing as I write, how the shifting of one part of me is influenced by and influences that other part of me which is the subject of this writing: then I feel, inscribed inside and onto me, intersectionality in the true sense of the term, it is my lens to look out at the world, and therefore at myself, and I will use it also in this context.
Let’s take a step back: I am the lover, I repeat, and I feel that this definition is too tight for me, too stereotyped for who I feel, for who I have become. A dangerous vertigo of awareness pervades me: so am I no longer a feminist? Am I occupying spaces that are not mine? Digging and digging, several issues have come to light.
JEALOUSY AND MONOGAMOUS RELATIONSHIPS: EFFECT OF PATRIARCHY?
In this long journey of transfeminist awareness, I have read countless books – my indispensable nourishment and my safe harbor – and listened to countless people – especially on social media – and, among other things, I have come across the concepts of polyamory and ethical non-monogamy, pondering various points of view and wondering, for each new facet I discovered, if it could be for me.
In these relationship configurations, partners know about the existence of their metapartners (that is, the partners of their partners) and accept it – although, from what I understand, not always without discomfort. But in my case, we are dealing with a monogamous relationship, an inheritance, a concern, and a necessity of the invisible and invasive patriarchal system, to the extent that Western society is only accustomed to love being experienced in this way (and this is also why polyamory is rarely and poorly discussed in mainstream environments).
If it is established that my partner’s relationship with his partner is monogamous, it was not obvious that it should also be so with me, and we explored the possibilities at the beginning of our relationship. However, the evolution of our relationship and our feelings has led us to desire each other “exclusively” and monogamously. The two configurations are therefore incompatible.
I strongly desire an exclusive relationship with him, but I cannot help but wonder (quote): is this desire truly mine, or is it just the result of a convention that I have internalized by simply existing in this world dominated by patriarchy?
This is the first question to which I cannot find an answer, even though it often wanders in my head.
Closely tied to this aspect there is the issue of jealousy. Brigitte Vasallo, feminist activist and writer, as well as polyamorous (I specify this because, to understand jealousy, I had to venture into a labyrinth of deconstruction where I also encountered this perspective), states (https://www.cuerpomente.com/blogs/brigitte-vasallo/superar-celos-tipo_1894) that jealousy is a bit like the car’s warning light that suddenly turns on: it doesn’t matter if it’s a problem with the vehicle or its driver, there’s an issue that needs fixing. Similarly, jealousy is a symptom of fear, fear of losing the other person – I am returning to the monogamous relationship, which is what interests me here – and as such, it needs to be analyzed, understood, and accepted.
It is not even the directly proportional manifestation of the amount of love that flows (and by the way, since when can love be quantified? Is it a commodity sold on the market stall?), although this is how the mainstream system of affection wants to frame it. It stems from the conception of possessing the other person within the realm of romantic feelings, which, even linguistically, becomes a battlefield.
But if loving means possession of the other person, in an interchangeable hierarchy between the two people involved in the relationship, then what about feminism, which is equality and, to quote Márcia Tiburi, “the opposite of loneliness”? I feel my jealousy, I know it, it’s there despite my feminist awareness.
So here it comes, question number two: if I feel jealousy, can I still say that I live and act from a feminist stance?
ONLY CRUMBS FOR US: FEMALE COMPETITIVENESS
As I mentioned earlier, we tend to talk about love and relationships using the semantic field of war: we conquer a person, that individual struck me to the heart, we fight for a relationship, and after all, “all is fair in love and war.”
I suspect we embrace this vocabulary precisely because we take monogamy for granted, which leads to a fundamental aspect that also intersects with gender issues.
Let me go back to myself, to us for just a moment. I am a woman, and the partner of my partner is a woman. In a sense, we are competing for the attention and love of this person, a man. Here is female competitiveness served.
In the hierarchy of privileges, we all know who occupies the peak, who sets the rules, who assigns roles, and administers power as they please and according to a free will whose criteria I sincerely struggle to understand. Aware that the identity of this social dictator is also formed by intersections – considered “normal” and therefore taken for granted – I would like to stick to gender here: the (cis) man is at the top, while the woman is at the bottom. The male symposium shares government positions, speaking turns, job roles and so on, and if he has to choose, he always does so in the company of men, rarely among women. Therefore, once those spaces are filled, the latter must settle for what little is left, which is not enough for all, thus leading to competition.
Capitalist society and its perpetual state of competition colonize even relationships and, in my case, they also instill contradictions. If sisterhood is the foundation of feminism, I wonder, can it exist between me and her? And if so, how, after how long after a possible breakup, after which types of healing process and introspection work?
I don’t personally know my partner’s partner, only enough to recognize her, to recognize each other, and I believe that this recognition is also formed by the early realisation of who is in front of us – their gender (it doesn’t apply in all cases, I know, but it does here). Not knowing who she is from direct experience, I cannot – and do not want to – wish her any harm; on the contrary, aware of how difficult it is to navigate this world as women and feeling her as my sister within this feminism (which can welcome also those who suffer the consequences of patriarchy and, despite that, still feel distant from its values), I wish her to be satisfied and happy in every aspect of her life.
How can we reconcile the fact that if he is with her I suffer, but if he is with me, it is she who suffers? I wonder: why should this happiness come from exclusion? And again, can we consider ourselves sisters, allies in a bigger fight?
SELFISH
This word was said to me by my father during a furious argument about the situation I am living in. If my mother’s insult, wh*re, immediately resonated with me as an example of slut-shaming, which I have learned to recognize, understand the causes, and therefore manage, to some extent, to distance myself from, being defined as selfish struck me in a particular way.
I have always been a person with the so-called “savior complex,” and in my life, I have often silenced my needs to satisfy those of others (and I keep doing so, albeit less), but thanks to psychotherapy, I was (I am) reclaiming my space, which is rightfully mine. Was it really necessary to label me as such?
But my mental gears had already started turning, so the questions came naturally.
What is perceived from the outside is that my partner and I live this relationship without thinking about the consequences on his wife and children. Which, I swear to you, is as far from the truth as possible: every single day, this idea comes to me straight, fierce, violent, and destabilizes me. And I am also aware that if in the future we were to formalize our relationship, I will be blamed, I will have to take on moral and concrete responsibilities, both individually and collectively. You might wonder: why are you still here? Who makes you do it?
Though I admit that I have sometimes had these thoughts in these long months of the relationship, the answer is that I have never experienced loving and being loved as it is happening now.
Again, here is the exclusion: if I continue to maintain this relationship, there is someone suffering (even in suspicions and doubts), and they would suffer if it were to come to light, while I’d be happy; if I choose to step aside, I would once again be the one silencing my needs and desires, which are only now speaking loudly and clearly.
Is there a solution in which no one can suffer? No, definitely not, and I see this also in my partner when he has to hide us or lie, and I feel sorry, wanting to help him face these dynamics with care and attention.
But is there a solution where the damage can be minimized? Perhaps, but which one? Another question that remains unanswered.
TO CONCLUDE
Many questions have emerged throughout these thoughts, and many others have surely remained unaddressed, even if I am not aware of them now. Unfortunately, I do not have an answer to all the questions I have asked myself before and that I ponder at least once a day. However, I have some awareness.
First of all, I learned that taking hold of your own mental health can lead to concrete revolutions: if I think about myself before therapy, I see a scared and defenseless animal, almost unrecognizable.
But if I have grown aware of the importance that this aspect plays in our lives, it was thanks to transfeminism, to the wonderful (and sometimes frightening) kaleidoscope of elements that compose it, and to the crystal-clear and disillusioned lenses with which it observes the world. Maybe, without this aspect of myself, I wouldn’t even be here writing and pondering questions.
I am infinitely grateful for this added value of mine, for everything I listen to, read, and learn from my sisters, because it is precisely through its means that I can define them as such and can look at the issue from a different perspective, where I know that jealousy, anger, sometimes even the feeling of not being enough, and other negative emotions and sensations not only have an individual origin but are also effects, causes, parts of a patriarchal and capitalist system much larger than myself, which I have internalized over the years.
Therefore, I owe this relationship also to being a feminist. For deciding to live it at the beginning, to reaffirm this yes every day, for understanding the importance of love (in the broadest sense of the term) and for feeling I deserve it.
But also, and above all, for the person by my side, who has triggered part of this personal change, who listens to and shares my values, who, although often unconsciously, puts them into practice because he considers them “normal,” who enriches my life (even of questions, as you can notice) and gives me new perspectives, who has deeply made me understand the meaning of living in relation, not only of love, but in broader terms.
If I weren’t who I am, if he weren’t who he is, if we weren’t capable of looking beyond the social constructions that shackle us, we wouldn’t have chosen each other, and we wouldn’t embrace each other as we do, and our love wouldn’t be so revolutionary, to the point of making us feel comfortable and uncomfortable, carefree and responsible at the same time.
JEALOUSY, COMPETITIVENESS, AND RESPONSIBILITY: A FEW MONTHS LATER
Since writing the post for Instagram and subsequently expanding on it for the collective, several things have changed in my personal situation.
In short, and without delving too much into the details out of respect for all the parties involved, now my partner’s partner knows about me because he told her, and after a turbulent period of distancing and reconnection, during which we both suffered a lot, things seem to have resolved themselves and he has decided to envision a future with me. It’s not official yet, and there hasn’t been a definitive separation, but he has clearly expressed his intentions both with me and (especially) with his partner.
How do I feel about all of this?
Surely for me, it entails a great responsibility. I will have to show even more attention to him, to his feelings, to the problems that will inevitably arise – both practical and emotional. It’s not about being the perfect person or partner, or forgetting my needs and desires, but about being able to understand, accept, and embrace the fact that everything that has happened to him so far cannot be considered entirely in the past, primarily because of the presence of his children of whom he remains the father and she remains the mother, and also because I fully understand that he will not stop caring for her. But I will not ask him to stop caring for her, because I realize that that would be selfish and I would be asking him to change: and I don’t believe in this kind of love.
During this period of transition, I often felt lost, unable to accept that the great love I had and still have for him should become just a memory. Yet, I understood the reason behind his distancing, the difficulty of leaving everything behind and facing the consequences: because his love never faded, and, despite my biased feelings, I felt it strong and clear, as well as his confusion. However, I told myself, if there’s someone whose feelings should be sacrificed, someone for whom there wouldn’t be too many consequences, it’s me. So, I tried from the beginning to adapt to the situation. I cannot deny, however, that the thought of something being taken away from me was present. To face this fear, I tried to think rationally and I kept telling myself that it wasn’t me who should have to worry about it, but her.
And how do I feel towards her?
To be fully honest: I feel disgusted. I realize the immense pain that I am – we are – causing her due to the urgency of this love that we both feel and want to pursue and make concrete. As I already mentioned in what I wrote some time ago, if I’m happy, she isn’t, if she’s happy, I’m not (where happiness is understood on a sentimental level, not just in a general sense). Even though these thoughts don’t leave me, one thing is certain: I have always been willing to meet her and talk to her, even to hear words that I know would hurt me, and I understand her current behavior because it’s dictated by the suffering caused by the love between my partner – who is officially also hers – and me.
This whole situation is a dilemma, one that must be experienced with responsibility and commitment from all parties involved, and above all with the utmost respect for others’ feelings and emotions. In my life, I have always been guided by feelings, and I still am: that’s why I have never said no to listening to him, to having him back in my life, because his absence would hurt me more than the inevitable process of rebuilding trust in him that I am facing. I believe in the power of love, the kind that reveals new parts of ourselves, and since I have known him, I have been undergoing a rediscovery – or simply a discovery – of a part of me that I didn’t believe existed and that I like very much. The goal, on which we agree, is to cause as little harm as possible. Will we succeed? Will we take the right steps? I don’t know, just as I don’t yet know if all of this can coexist with my calling myself a feminist. I don’t want to be the perfect feminist, but I want to try to understand as many perspectives as possible, even if they conflict with my feelings and desires. This is something I owe to myself and to the people affected by my actions.
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