IL SANGUE DELLA DISCORDIA: PERCHÉ DOBBIAMO PARLARE DI MESTRUAZIONI

TW: disturbi alimentari

La mattina dell’8 dicembre 2007 ero a casa di mia nonna per il consueto pranzo in famiglia dell’Immacolata; andai in bagno e abbassai gli slip neri, la cui tasca interna era bianca, per scoprire che aveva perso il suo colore immacolato (è il caso di dirlo) ed era diventata di un colore misto tra marrone e rosso scuro. “Mi sono fatta la cacca addosso e non me ne sono accorta”, pensò la me quasi undicenne, che, mica stupida, già dal giorno prima si era accorta che le mutandine erano sporche. Disperata, chiamai mia madre, che mi disse di stare calma e che era una cosa normale. Cosa fosse non me lo disse in quel momento, solo dopo, e per cenni.

Inizia così la mia storia mestruale, costellata di tanti episodi, alcuni dei quali rievoco di seguito.

Ricordo la classica e fatidica domanda alle compagne di scuola con cui ero in confidenza: “Mi controlli se sono sporca dietro?”, seguita da una risposta sempre negativa e da un furtivo nascondere l’assorbente nella pochette prima di andare in bagno. 

Ricordo che per un periodo sono stata fissata col chiedere alle mie amiche se anche loro avevano avuto le mestruazioni e tempestarle di domande sul tema, un po’ per curiosità, un po’ per capirne di più.

Ricordo quel mio resistere agli assorbenti enormi che mia madre mi propinava ogni mese, la mia invidia per quelli sottili avvolti nella carta viola che usavano le persone che conoscevo, la mia incapacità di dire a mia madre (tra le tante cose) che io volevo quelli perché non volevo sentire l’ingombro eccessivo e la sorpresa per la facilità con cui acconsentì alla mia richiesta quando riuscii a formularla.

Ricordo la scomparsa del sangue quando, nell’autunno del 2012, i sintomi dell’anoressia si erano fatti evidenti (a tuttз, tranne che a me) e le preghiere – allora ero molto religiosa – perché mi tornassero le mestruazioni, ma anche la vergogna di parlare della loro assenza e i continui cambi di discorso.

Ricordo che a un certo punto pensai anche che ero fortunata, che si viveva meglio senza, sebbene non avessi mai avuto – per fortuna – mestruazioni particolarmente abbondanti o dolorose, che era un pensiero in meno rispetto al resto del mondo; ma ricordo anche che, ogni volta che guardavo una persona female presenting, non potevo fare a meno di pensare che per lei era tutto a posto, che lei le mestruazioni ce le aveva e probabilmente proprio nel momento in cui la osservavo.

Ricordo di aver detto a un istruttore della palestra che frequentavo durante il tirocinio universitario che non mi sentivo più donna perché le mestruazioni mi venivano a piacere loro – nel frattempo erano tornate per qualche mese, per poi scomparire di nuovo –, l’attesa dello sguardo di pietà che vedevo in mia madre ogni mese quando deludevo le aspettative “da donna”, la consolazione di sentire le parole “ma tu non sei meno donna se non hai le mestruazioni”, la conseguente riconsiderazione del mio disagio e delle mie idee su me stessa. 

Ricordo il corso di yoga a cui mi iscrissi perché avevo capito che lo stress giocava un ruolo fondamentale nel mio – mancato – equilibrio mestruale, le asana che dovevano favorire la fertilità e che io cercavo di eseguire pedissequamente e la coincidenza che dopo una sola settimana di lezioni le mestruazioni fecero la loro ricomparsa (poi ho capito che stavo ovulando da prima di firmare quel contratto, ma ho preferito sognare). 

Perché parlare delle MIE mestruazioni per parlare delle mestruazioni in generale?
Credo nel potere delle parole e, come le femministe della seconda ondata, nell’espressione della propria condizione individuale per collegarla a processi sociali e culturali collettivi. Parlare delle mie mestruazioni significa individuare tanti segnali di uno stigma legato a esse che pervade la nostra cultura e che ha conseguenze concrete nella vita delle persone.
Prontз a intraprendere questo viaggio?

Un’illustrazione dei vari prodotti mestruali dell’autorə queer Sarah Epperson

A PROPOSITO DI NOMI

Se avete notato, finora ho utilizzato spesso il termine “mestruazioni” per riferirmi al sanguinamento che la maggior parte delle persone con utero in età fertile sperimentano ciclicamente. Credo, infatti, che chiamare qualcosa col nome che gli compete contribuisca a delinearlo in modo chiaro, a ribadirne l’esistenza e, per quanto io sia un’appassionata di poesia e spesso utilizzi metafore nel mio parlato quotidiano, in questo caso ritengo sia giusto dire “mestruazioni”. 

Quando ho avuto il menarca (altra parola fondamentale, significa “prima mestruazione”), mia madre mi ha parlato di “mestruazioni” e io, vedendo in lei il vocabolario della mia inesperta crescita, ho continuato a utilizzare il termine anche al di fuori del contesto familiare. Solo a un certo punto ho subito una sorta di accomodamento, in cui, sentendo tutte le altre persone chiamare il flusso “ciclo”, ho iniziato anch’io ad adeguarmi. E solo quando sono giunta al femminismo, ho compreso la differenza tra “ciclo” e “mestruazione” e ho ripreso in mano questa parola, stavolta intenzionalmente, con alla base motivi politici di visibilità.

Il ciclo mestruale, infatti, ha una durata media di 28 giorni ed è composto di diverse fasi, ovvero:
– FASE MESTRUALE: è il vero e proprio periodo di sanguinamento, che dura dai 3 ai 7 giorni in media, in cui la mucosa dell’endometrio (parte interna dell’utero) si sfalda e con essa anche i vasi sanguigni che si erano formati, causando quindi la perdita di sangue e di altre sostanze (l’endometrio stesso, secrezioni vaginali e muco cervicale); c’è chi perde più sangue e chi meno.
– FASE FOLLICOLARE: della durata in media di 14 giorni, è la fase di maturazione dei follicoli, grazie all’intervento dell’ormone FSH prodotto dall’ipofisi; può essere accompagnata da perdite di muco cervicale e, in generale, da un aumento della libido e del buon umore.
– FASE OVULATORIA: uno tra i tanti follicoli maturati in precedenza scoppia e, grazie all’intervento dell’ormone LH, rilascia il suo uovo, che dall’ovario va in una delle tube di Falloppio, dove potrà essere fecondato; in questa fase, estrogeni e testosterone sono al loro picco.
– FASE LUTEINICA. Il follicolo si trasforma nel corpo luteo, che produce il progesterone, il quale trasforma l’endometrio in modo da renderlo accogliente in caso di gravidanza; se non c’è fecondazione, l’ormone cala e l’endometrio si sfalda, preparandosi alla mestruazione; è il momento in cui si dovrebbe accusare la cosiddetta PMS (sindrome pre-mestruale), di cui parleremo più avanti.

In base a quanto abbiamo visto in breve – non sono una medica, perciò per informazioni più approfondite affidatevi a persone più esperte di me – perché mai chiamare una sola delle fasi col nome di “ciclo”, che invece è un processo molto più esteso e complesso?
Eppure, anche quando non usiamo la parola “ciclo”, troviamo delle alternative linguistiche anche molto bizzarre, che variano allo spostarsi sulla carta geografica. Dunja Kokotović, global brand manager di Intimina, afferma che ce ne siano oltre 5000.

Ad esempio, in Italia è tipico sentir dire che “è arrivato il Marchese”, in riferimento alle palandrane rosse che questi nobili indossavano per distinguersi dal popolo, oppure è comune anche l’espressione “ho le mie cose” (retaggio del capitalismo e della sua smania di possesso?).
In Francia, invece, il rimando storico la fa da padrone: “sono sbarcati gli inglesi”, si dice, in riferimento alla battaglia di Waterloo del 1815, in cui i soldati inglesi che invasero la Francia avevano le uniformi rosse. Sempre sulla scia geopolitica – e vedremo che quella sul nostro corpo è una vera e propria colonizzazione – in Belgio e in Grecia si dice “sono arrivati i russi”, mentre nei Paesi Bassi” si “issa la bandiera rossa” o “la bandiera giapponese” e in Danimarca si racconta che “i comunisti sono sotto a un gazebo”.
D’altro canto, oltre alla visita italica del marchese, è possibile ricevere come ospite la nonna (Polonia), Aunt Flo (Stati Uniti, giocando sull’assonanza tra “Flo” e “flow”, cioè flusso), i pittori (Regno Unito), un cugino (Germania), “M” (Cina, e non è un riferimento alla pellicola di Lang), un vampiro o Andres (“el que viene una vez por mes”, Spagna).
Inoltre, nella maggior parte del mondo possiamo stare “in quei giorni là”, nel “giorno blu” o “giorno femminile” (Giappone), nei “giorni di vacanza” (Russia e Cina), nella “settimana del ketchup” (Francia).
Poi, durante le mestruazioni – lo scrivo io, visti tutti questi eufemismi –, potremmo essere pienз di fiori, papaveri, lune, rosari, salse di pomodori, mirtilli, fragole, star visitando le “cascate del Niagara” o ancora avere “lavori in corso” o “controlli tecnici”. 

Un’illustrazione degli eufemismi per le mestruazioni dell’illustratrice Hazel Mead 

Un’espressione particolare è “avoir ses ourses”, cioè “avere le orse”. Come racconta Thiébaut nel suo Questo è il mio sangue, si tratterebbe di un riferimento alla dea Artemide, poiché il suo nome significa “orsa possente”. L’orso, infatti, secondo Aristotele e Plutarco, è un animale simile all’essere umano poiché «copula sdraiato, talvolta si rizza e può camminare sulle zampe posteriori, e nutre i suoi piccoli con la stessa tenerezza di una madre», perciò è diventato uno dei totem più diffusi in Europa. Così, suggerisce l’autrice, si collegherebbe il totem al tabù del nominare le mestruazioni con la parola “orse” e in questo senso il totem diventerebbe, secondo quanto insegna Freud, il riferimento del clan trasmesso per via ereditaria al quale si collega anche il concetto di esogamia.
Ritornando ad Artemide, inoltre, si racconta che un’orsa avrebbe trovato rifugio in un tempio della dea, ma un giorno graffiò una bambina che la stava stuzzicando e fu uccisa dai fratelli di lei; Artemide si offese e scagliò la peste su Atene, perciò da quel giorno le donne ateniesi più giovani furono mandate al tempio per imparare a comportarsi come vere donne, venendo sottoposte a una vera e propria iniziazione fino al matrimonio, durante la quale imparavano tessitura, musica, danza e corsa a piedi e si occupavano dei riti segreti del santuario. Durante la caccia sacra di Artemide, indossavano una veste chiamata krokotos, che ricordava la pelliccia di un’orsa, per poi spogliarsene e correre nude intorno a un fuoco, andando però spesso incontro a rapimenti e stupri. 

Insomma, nominare le mestruazioni non ci piace, eppure che c’è di male nell’utilizzare una parola dal significato oggettivo? Essa, infatti, viene dal latino menstruatio, che significa “mensilità”, derivato di menstrum, avverbio di tempo che significa “una volta al mese”.
È indubbiamente un tabù imposto dalla cultura patriarcale, che però ha ricadute su come le mestruazioni vengono vissute e considerate a livello sociale.

VIVERE LE MESTRUAZIONI DALL’ANTICHITÀ A OGGI

Poiché il patriarcato non è un’istituzione recente, nemmeno il tabù delle mestruazioni lo è e le due cose sono strettamente collegate. Basta andarsi a leggere qualche passo di filosofi greci o di testi sacri delle tre religioni monoteistiche per comprendere la portata di questo fenomeno:

«Ma non sarebbe facile trovare qualcosa di più prodigioso del flusso mestruale delle donne. Al sopraggiungere di una donna che ha le mestruazioni il mosto inacidisce; al suo contatto le messi divengono sterili; muoiono gli innesti, bruciano i germogli dei giardini, cadono i frutti degli alberi presso cui la donna si è fermata; al suo solo sguardo la lucentezza degli specchi si appanna, si smussa la punta delle lame, si oscura lo splendore dell’avorio, muoiono le api negli alveari; persino il bronzo e il ferro si arrugginiscono all’istante e il bronzo prende un odore sgradevole. I cani, se assaggiano il liquido mestruale, diventano rabbiosi e il loro morso è contaminato da un mortale veleno.» (Plinio il Vecchio, Storia naturale, libro VII, cap. XIII)

«Nel caso degli specchi particolarmente lustri, infatti, quando le donne al tempo delle mestruazioni guardano nello specchio, sulla superficie dello specchio stesso si genera come una nuvola sanguigna. […] Pertanto quando si generano le mestruazioni, a causa del perturbamento e dell’infiammazione del sangue, la differenza negli occhi non ci è chiara ma c’è (la natura del seme e delle mestruazioni, infatti, è la stessa): l’aria ne viene mossa, e l’aria che sta sullo specchio, trovandosi a continuazione, la rende tale quale l’affezione che essa subisce. […] In questo modo gli indumenti molto puliti si sporcano velocemente.” (Aristotele)

«Quando una donna abbia flusso di sangue, cioè il flusso nel suo corpo, per sette giorni resterà nell’impurità mestruale; chiunque la toccherà sarà impuro fino alla sera. Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la sua impurità mestruale sarà impuro; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro. Chiunque toccherà il suo giaciglio, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Se un oggetto si trova sul letto o su qualche cosa su cui lei si è seduta, chiunque toccherà questo oggetto sarà impuro fino alla sera. Se un uomo ha un rapporto intimo con lei, l’impurità mestruale viene a contatto con lui: egli resterà impuro per sette giorni e ogni giaciglio sul quale si coricherà resterà impuro.» (Levitico 15, 19-24)

«Non abbiate contatto carnale con donne mestruate, statene a debita distanza fino a che non si siano purificate.» (Corano, sura II, versetto 222)

Insomma, o le parole sulle mestruazioni mancano e si ricorre a metafore ed eufemismi, o queste parole sono taglienti. Eppure, stiamo parlando di una caratteristica fisiologica dei corpi con utero, di quello stesso sangue che scorre a fiotti durante le guerre senza che nessunə se ne preoccupi troppo – né di versarlo, né di mostrarlo. Perciò, altra ragione non c’è se non il patriarcato e la sua ossessione per il controllo sui corpi che deviano dalla norma maschile, etero, cis, abile e un milione di altre definizioni.

Una raffigurazione di donne egizie che si occupano delle proprie questioni intime

Però, come si diceva, queste parole non rimangono tali, ma si convertono in fatti, e i corpi che mestruano lo sanno fin troppo bene, sin dall’antichità.
Ad esempio, nell’antico Egitto, si era soliti inserire nella vagina del lino o del papiro ammorbidito, come racconta il Papiro ginecologico di Kahun. Nell’antica Grecia, invece, lo stigma attorno al sangue mestruale, considerato residuo di cibi non digeriti e potenziale veicolo di malattie e disgrazie, costringeva le donne a ritirarsi nel gineceo e utilizzare garze, pelli animali, carta, muschio ed erbe per arginare, sempre internamente, il flusso. Nell’antica Roma, ci si legava delle bende di lana, agganciandole alla cintura sotto i vestiti. A supportare tutto ciò, c’era l’idea che la donna avesse l’esclusivo compito di essere madre, perciò le mestruazioni erano considerate «il pianto di un utero deluso», un’occasione sprecata di generare figli (maschi) che potessero continuare il nome della famiglia.
Col Medioevo e la diffusione del Cristianesimo, la figura della donna muta e viene esaltata la virgo, la donna illibata che si consacra a Dio, il cui flusso è garanzia della sua purezza e viene ritenuto liberatore. Nonostante ciò, le superstizioni sulle mestruazioni continuarono, perciò le persone che mestruavano, nei giorni del flusso, dovevano vivere appartate e nascondere il sangue usando dei panni di cotone o un muschio molto assorbente chiamato sphangnum palustre, tenendoli fermi con dei pantaloncini cuciti. Spesso indossavano inoltre vestiti rossi, proprio per celare perdite inaspettate.
Nel Rinascimento, le mestruazioni furono chiamate per la prima volta “quei giorni del mese”, si continuarono a utilizzare abiti rossi per mimetizzare il colore del sangue e panni di cotone o di lana, spugne, muschi e pelli animali. Nel Seicento e nel Settecento, le cose non migliorarono: si riteneva, all’epoca, che la biancheria dovesse essere evitata perché portava alla circolazione di malattie e che lavarsi aumentasse il flusso, perciò si ricorreva a ingenti quantità di profumi e unguenti per celare i cattivi odori; solo le donne più abbienti potevano indossare delle culotte.

Dalla fine dell’Ottocento, in particolare dall’età vittoriana, le cose cominciarono piano piano a cambiare, anche perché si diede maggior importanza alle condizioni igienico-sanitarie.
Come racconta Charles Delucena Meigs in Obstetrics: the science and the art (1852), «non appena si percepisce che le mestruazioni cominciano a fluire, la donna applica una benda a T, consistente in un tovagliolo, chiamato guard, piegato come una cravatta, che viene premuto contro i genitali, mentre le estremità sono fissate a una corda o un nastro legato attorno al corpo sopra i fianchi; ma ho visto alcune, non poche donne, che mi hanno assicurato di non aver mai usato altre precauzioni oltre a quella di indossare una sottoveste più spessa per paura dell’esposizione alla loro condizione. […] Molte pazienti di sesso femminile mi hanno assicurato che non usano mai meno di una dozzina di pannolini per ogni ciclo – e quindici, e anche venti cambi non sono molto rari in caso di mestruazioni di una donna in salute.»
Da queste parole, si possono evincere diversi particolari: non esistevano ancora delle mutande o dei prodotti specifici capaci di trattenere il sangue mestruale, le donne mantenevano la paura di mostrarlo apertamente, la ginecologia era appannaggio – come tutta la medicina – degli uomini e infine che è utile specificare “donna in salute” poiché all’epoca le mestruazioni non erano tanto comuni come lo sono oggi, date le numerose e continue gravidanze e la malnutrizione delle donne dei ceti più poveri. 

In seguito, fecero il loro ingresso sul mercato degli assorbenti simili a quelli odierni, nati in Germania e negli USA. Nel 1896, l’azienda Johnson & Johnson cominciò a commercializzare i suoi Lister’s Towels, chiamati così dal nome di Joseph Lister, il chirurgo che per primo utilizzò l’antisepsi nella pratica operatoria, e, nello stesso periodo, a Londra si iniziarono a vendere le Hygienic Towelettes di Hartmann: tuttavia, questi prodotti non ebbero grande successo, non tanto perché non assolvessero il proprio compito (sebbene fossero lontani dall’essere del tutto antisettici) o perché costassero troppo, ma perché le donne si vergognavano ad acquistarli.

La pubblicità dei Lister’s Towels


Durante la Prima Guerra Mondiale, negli ospedali militari si diffuse il Cellucotton, usato per assorbire il sangue dei feriti, ma le infermiere, vedendo che funzionava, decisero di usare avanzi e ritagli per creare degli assorbenti; l’azienda, dopo la fine del conflitto, provò a commercializzarli, ma anche questi non ebbero fortuna.
Si racconta poi che, negli anni Venti del Novecento, nell’Old Operating Theatre di Londra furono pubblicizzati i Dr Pierre’s Hygeiaforms: tuttavia, si trattava di una pubblicità ingannevole, dato che si sosteneva che questi assorbenti non solo avessero proprietà antisettiche e germicide, ma anche «effetti curativi, rinforzanti e tonici per i tessuti vaginali più delicati» e potessero curare tutte «le malattie dell’organo pelvico», tra cui l’amenorrea, la dismenorrea e i dolori mestruali. Dopo un’inchiesta, la corte di New York, nel 1931, li mise al bando.
Nello stesso periodo, fu introdotto il Kotex, ottenuto combinando cotone e tessuto, le cui modalità di vendita furono rivoluzionate: infatti, si suggerì ai commercianti di esporli sui banconi accanto a una scatola in cui chi ne aveva bisogno poteva inserire il denaro, in modo da non chiederli direttamente. Inoltre, la biancheria intima femminile cominciò a essere più sgambata, il che permise di posizionare meglio l’assorbente.

Rivoluzionaria, negli anni Trenta, fu l’introduzione del primo tampone interno, il Tampax, registrato nel 1936 dalla Kimberly-Clark Corporation. Tuttavia, nonostante l’inventore fosse John Williamson (si noti la preponderanza di uomini in questo itinerario storico), l’azienda aveva bisogno di una donna per testarli e la trovò in Gertrude Voss Schulte-Tenderich Sears. Quest’ultima acquistò poi il brevetto per 32mila dollari e fondò la sua azienda, la Tampax appunto.
Il tampone interno era già stato utilizzato in passato (ricordate l’antico Egitto?), ma esistevano delle remore sull’uso di questo tipo di prodotto, poiché molte donne che lo avevano utilizzato – e forse tenuto troppo all’interno della vagina – suggerivano, sostenute anche da medici, che potesse provocare irritazioni e infezioni. Perciò, nel 1952, la Tampax dichiarò che tutte queste paure non avevano alcun fondamento scientifico e che, argomento molto scottante, i loro assorbenti non causassero la perdita della verginità

Foto ritraente Gertrude Voss Schulte Tenderich Sears, fondatrice di Tampax

Con gli anni Sessanta e Settanta, la cultura cominciò rapidamente a cambiare: nei circoli femministi si iniziò a contestare l’idea che la verginità dipendesse dall’integrità dell’imene, perciò molti tabù caddero e i Tampax vendettero sempre di più. Questo finché tra il 1979 e il 1996 non si verificarono oltre 5mila casi di sindrome da shock tossico (TSS) in donne che utilizzavano assorbenti interni (non solo di questa marca), il che portò alla luce il problema della mancanza di regolamentazione sulla composizione e produzione di questi prodotti, che contenevano derivati del petrolio (come il poliestere).

Tuttavia, iniziarono a diffondersi delle alternative.
Negli anni Ottanta gli assorbenti usa e getta – una pratica fino ad allora poco diffusa poiché si preferiva l’uso di panni lavabili e riutilizzabili ogni mese – si diffusero sempre di più. Nel 1969, la Stayfree aveva inventato il primo assorbente mestruale adesivo, facendo scomparire del tutto la cintura mestruale.
La coppetta mestruale, i cui primi prototipi in alluminio o gomma dura risalivano al 1860, fu inventata nella sua versione in lattice nel 1937 dall’attrice statunitense Leona Chalmers e perfezionata negli anni Cinquanta, anche a causa della carenza del materiale di base verificatasi durante la Seconda Guerra Mondiale. L’azienda Tassette ne comprò i diritti e iniziò una campagna di sensibilizzazione: inviò coppette mestruali alle infermiere e chiese loro di consigliarla a chi aveva bisogno di prodotti per il proprio ciclo mestruale. È solo durante gli anni Duemila che è stata inventata la sua versione in silicone.

PERIOD POVERTY, AMENORREA, SANGUE BLU E ALTRE COSE DI CUI NON SI PARLA ABBASTANZA 

Perché parlare di mestruazioni come una questione femminista?
La domanda può sembrare banale, ma non lo è. Dopotutto, è un fatto privato e sono poche le persone a cui confessiamo di avere le mestruazioni in un determinato momento o con cui parliamo dei dolori mestruali che ci danno fastidio. Eppure, abbiamo potuto constatare che questo argomento coinvolge diversi aspetti che non possiamo ignorare. Finora abbiamo delineato una storia dei prodotti mestruali, considerando poco chi effettivamente li usa. 

Già, chi li usa? Le donne, si dirà. E invece no, o almeno non solo e non tutte, ed è per questo che dobbiamo iniziare a parlare di “persone che mestruano” perché nella realtà si verificano casi in cui associare automaticamente il termine “donna” a “mestruazioni” non è corretto. In un tweet del 2020, ad esempio, l’autrice J.K. Rowling (che, appunto, è considerata una TERF) si è mostrata molto scettica e inopportunamente ironica riguardo all’espressione proposta, “persone che mestruano”.
Innanzitutto, esiste un ampio spettro di persone che non si identificano col genere assegnato alla nascita, che rientrano nello spettro trans* (chi si identifica con più generi, chi con un altro, chi con nessuno), e di persone intersessuali; il genere non ha infatti a che fare col corpo che una persona ha, o perlomeno non rappresenta un indizio per determinarlo. Ma poiché questa consapevolezza è ben lungi dall’essere diffusa e men che meno assimilata nel senso comune, le persone trans* potrebbero sperimentare incongruità di genere quando si parla di mestruazioni, poiché le persone trans* che mestruano si trovano spesso ad avere a che fare con un ambiente medico e familiare ostile, che impedisce loro l’accesso a cure mediche e perfino prodotti mestruali di base. Ancora oggi, non è insolito trovarsi al supermercato nel settore indicato col nome di “prodotti per l’igiene femminile”, notare la mancanza di cestini e contenitori per assorbenti nei bagni pubblici per uomini o trovare solo persone cisgender o dall’aspetto tipicamente femminile nelle pubblicità di questi prodotti (sulle pubblicità e la loro rappresentazione tornerò comunque più avanti). Tutto ciò porta le persone con mestruazioni che non si identificano come donne a sperimentare un profondo disagio quando devono andare in bagno per cambiare l’assorbente o tra le corsie del supermercato – e questo è un problema più ampio, perché pare che sia anche una vergogna per compagni, mariti e amici di persone che mestruano addentrarsi in queste aree colorate di rosa per poi presentarsi alla cassa con un pacchetto di assorbenti. E, non da ultimo, la ginecologia non può avere come oggetto di studio esclusivamente le donne proprio per i motivi detti in precedenza: lo spettro del genere e quello del sesso biologico sono così variegati – sono appunto spettri, non polarità – che le conoscenze e le pratiche devono essere ampie, accoglienti e inclusive, al fine di garantire quel famoso diritto alla salute per tuttз


Pubblicità progresso che sponsorizza l’uso dei prodotti mestruali da parte delle persone trans*Transgender Period Products - What Trans and Non-Binary Menstruators Should  Know About Periods

Il secondo motivo per cui utilizzare l’espressione “persone che mestruano” è corretto e rispettoso è che nemmeno tutte le donne cis hanno le mestruazioni. Vi ricordate quando nell’introduzione vi parlavo del fatto che, a causa dell’amenorrea causata dai miei disturbi alimentari, mi sentissi “meno donna” e inferiore alle altre? Ecco, in quel momento io avrei tanto voluto comprare pacchi e pacchi di assorbenti da poter utilizzare, ma non potevo, non mi servivano. Eppure, non lo dicevo in giro e sentivo di meritare gli sguardi riprovevoli di mia madre.
Perché una persona con utero la cui mancanza di mestruazioni è socialmente accettata o è in gravidanza, o sta allattando al seno– e quindi sta assolvendo a quella che si considera la sua funzione principale e il suo unico scopo di vita – o è avanti negli anni ed è in menopausa – e in questo caso avrà già svolto, molto probabilmente, il suo ruolo riproduttivo e non servirà più a niente. In realtà, la prima condizione è largamente più accettata della seconda.
Tuttavia, la realtà anche qui è ben più diversificata e l’amenorrea, ossia l’assenza di mestruazioni nel periodo di almeno tre cicli mestruali consecutivi, può avere diverse cause: disturbi del comportamento alimentare, attività sportiva eccessiva rispetto alle capacità di recupero, patologie genetiche, sindrome dell’ovaio policistico, sindrome di Turner, sindrome di Kallman, insufficienza ovarica primaria, uso di farmaci come la pillola anticoncezionale (e anche qui ci sarebbero tanti discorsi da fare), antidepressivi e antipsicotici, malfunzionamenti dell’ipofisi, della tiroide o dell’ipotalamo, tumori, radioterapia, presenza di cicatrici nell’utero per un interventi chirurgici e altro – su questi aspetti, tuttavia, per identificare la causa precisa, vi rimando al parere di unə espertə.
In tutti questi casi appena elencati, la società in cui viviamo non mancherà di farci sentire in difetto: è una forma subdola di controllo del corpo, quella che norma i casi in cui non avere le mestruazioni va bene e punisce chi devia da questi binari.
Ma le mestruazioni, e più in generale il ciclo mestruale, sono una mera funzione biologica che, ancora una volta, non c’entra con il genere femminile e che si esprime in così numerose varianti – quantità di sangue, lunghezza e frequenza del ciclo, sintomi prima e durante le mestruazioni – che è impossibile attenersi a una sola norma precisa e tantomeno attribuire tutte queste variazioni solo ai corpi arbitrariamente assegnati al genere femminile alla nascita. Però la norma piace e tranquillizza il patriarcato, che così può controllare tutti i corpi difformi da quelli che privilegia.

Passiamo ora a un altro aspetto. Se prima avete notato, ho scritto che, durante l’amenorrea, avrei voluto comprare «pacchi e pacchi di assorbenti»: già, perché io, quando all’improvviso li finisco o so che le mestruazioni sono vicine, posso permettermi di uscire di casa, entrare in un negozio (senza sentirmi triggerata dai cartelli sull’igiene femminile o sentirmi osservata, poiché sono una donna cis), scegliere il modello che più si adatta alle mie esigenze, spendere i soldi necessari, tornare a casa, indossarli al bisogno e, mentre li ho addosso, continuare a svolgere tutte le mie attività abituali, come lo studio, il lavoro e l’attività fisica. Io a tutto questo do un solo nome: PRIVILEGIO.
Lo scrivo in maiuscolo, così si capisce bene. Come ogni privilegio, non è una colpa, ma chi ce l’ha deve esserne consapevole, parlarne e possibilmente fare qualcosa per riequilibrare le situazioni di svantaggio largamente diffuse.
Partiamo allora da una definizione: period poverty. Con questa espressione, si indica la mancanza di accesso non solo ai prodotti mestruali, ma anche all’igiene, agli spazi sicuri, all’educazione e al lavoro che sperimentano le persone che mestruano proprio per lo stigma e la vergogna legati alle mestruazioni. 


Dimostrazione contro la period poverty e in favore della salute mestruale per tutt3

Qui vorrei fare una digressione. Durante l’excursus storico in precedenza, mi sono soffermata poco sulle mestruazioni durante l’Olocausto, proprio perché volevo approfondire l’argomento in questa sede. Una volta tradussi un articolo che riguardava la gestione del ciclo mestruale nei campi di concentramento e mi colpì moltissimo il fatto che mai prima di allora avevo pensato a questo aspetto del genocidio nazista. Nei lager, come racconta ad esempio la senatrice Liliana Segre1, i corpi erano esposti allo sguardo altrui: «La spoliazione della femminilità, la rasatura, la perdita delle mestruazioni, sono state un percorso comune a tutte le donne. Sì, ne abbiamo risentito tutte moltissimo. Io soffrivo parecchio per le mestruazioni e ricordo che uno dei primi pensieri arrivando lì dentro era stato: e quando arriveranno le mestruazioni come farò?»
Rieccolo lo stigma della mancanza del ciclo mestruale in età fertile, in quel caso dovuto all’insufficienza di cibo e al grande trauma psicologico in corso. Inoltre, le condizioni igienico-sanitarie non erano buone poiché mancavano l’acqua e la biancheria intima e bisognava rubare quei pochi pezzi di tessuto per poi lavarli e nasconderli. A volte, avere le mestruazioni salvava da stupri ed esperimenti perché i nazisti non volevano avere rapporti con le donne che sanguinavano.

  1. Citiamo qui Liliana Segre perché ha vissuto in prima persona l’esperienza in questione e riteniamo rilevanti le sue parole sull’argomento. A prescindere da ciò, comprendiamo che di recente ha rilasciato dichiarazioni problematiche sul genocidio che Israele sta perpetrando contro il popolo palestinese, dalle quali ci dissociamo completamente. ↩︎

Non mancarono, nell’orrore, la solidarietà femminile tra le più anziane, che insegnavano alle più giovani – alcune delle quali ebbero il menarca proprio durante la prigionia – come gestire questo lato di sé, e la gioia alle mestruazioni ritrovate all’uscita dei campi.

L’esperienza dei campi di concentramento è fondamentale per comprendere come le mestruazioni siano un aspetto imprescindibile durante le crisi umanitarie: Action Aid sottolinea come «periods don’t stop in a crisis» (le mestruazioni non si bloccano durante una crisi) o almeno non per tuttз, perciò garantire i prodotti mestruali e i fondi per acquistarli deve essere una priorità. Del resto, le crisi umanitarie, come il genocidio ora in corso in Palestina, ma anche i disastri naturali che colpiscono i paesi in via di sviluppo, mostrano i loro principali effetti negativi sulle persone con utero.
Si stima inoltre che in Africa una ragazza su dieci salti la scuola durante le mestruazioni, il che porta ad avere un’educazione incompleta (provate a sommare i giorni medi del flusso in un anno, sono tanti), abbassando la probabilità di conseguire un lavoro per il proprio sostentamento e aumentando quella di matrimoni e gravidanze precoci.
Inoltre, esiste anche un problema economico più ampio: si stima che un pacco di assorbenti costi più di un giorno di paga in Malawi, perciò acquistare mensilmente questi prodotti – laddove disponibili – comporta un impatto sul salario non indifferente.
E se questi aspetti ci sembrano lontani da noi – e non dovrebbero –, ci basta entrare nella nostra realtà: il governo Meloni ha riportato l’IVA su assorbenti, tamponi e coppette mestruali al 10%, dopo il ribasso al 5% previsto dalla legge di bilancio del 2023. Se questa aliquota ci sembra comunque bassa, ci basterà ragionare sul fatto che i tartufi ce l’hanno al 5% e i francobolli da collezione al 9%, quindi forse ci converrebbe creare una coperta intrecciata di francobolli al gusto di tartufo per quando abbiamo le mestruazioni: ci costerebbe meno. Si tratta di una situazione inaccettabile, considerando ad esempio che in Spagna l’aliquota è al 4%, in Francia, Polonia, Repubblica Ceca, Lituania e Cipro è al 5%, mentre in Irlanda la tampon tax non esiste e addirittura in Scozia gli assorbenti sono gratuiti. È indicativo e alquanto contraddittorio poi che questa aliquota non si applichi solo ai prodotti per l’igiene mestruale, ma anche ai pannolini e al latte in polvere, oggetti solitamente usati per le persone neonate: insomma, generate prole per non pagare gli assorbenti, ma questa prole vi costerà con gli interessi dopo. 


Risultati di una statistica sulla tampon tax in Europa

Se ignorare l’aspetto economico, in una condizione di crisi sempre più ad ampio raggio per le famiglie italiane (soprattutto monoreddito e/o monogenitoriali), è impossibile, non possiamo non tenere in conto un altro tipo di impatto: quello ambientale. Anche qui è in atto una crisi non di poco conto a livello globale di cui i prodotti per le mestruazioni rappresentano una fetta considerevole (non al pari dei jet privati delle persone ricche, certo).
I prodotti mestruali impiegano oltre 500 anni per decomporsi: in media ogni anno si usano 12mila prodotti sanitari usa e getta, che poi finiscono nelle discariche annualmente. Lo vedete l’impatto?
Mi si risponderà: ma allora se ti preoccupi tanto dell’impatto ambientale delle mestruazioni, perché non convertirsi totalmente ai prodotti riutilizzabili? Oggigiorno, tra slip assorbenti e coppette mestruali, abbiamo l’imbarazzo della scelta. Un’indagine di Intimina ha rilevato che il 59% delle (purtroppo solo) donne cis  intervistate pensa agli effetti sull’ambiente di assorbenti esterni e interni al momento dell’acquisto e il 42% ha provato prodotti più ecologici (di cui il 63% la coppetta mestruale). Inoltre, esistono assorbenti usa e getta in cotone organico, quindi con tempi di decomposizione molto minori.
Tuttavia, a cosa gioverebbe un’imposizione dall’alto sull’utilizzo di prodotti più ecologici e riutilizzabili? Non tutte le persone che mestruano vorrebbero usarli, innanzitutto: vi porto la mia esperienza di persona che non ne era a conoscenza fino a poco tempo fa (avete mai visto in tv la pubblicità di una coppetta mestruale?) e che ha un po’ di timore di non inserirli nel modo corretto e di non sentirsi comoda abbastanza nello stesso modo degli assorbenti esterni. Per non parlare del fatto che i prodotti riutilizzabili hanno un costo elevato e, anche se ammortizzabile sul lungo periodo, non è detto che si possano acquistare (ad esempio, se si usano le mutande assorbenti è bene averle almeno due o tre paia).
Ciò che una persona decide di fare nella sua sfera intima ha sicuramente un impatto (il personale è politico), ma intromettersi in scelte così personali è una violazione della libertà individuale non tanto diversa da quella di limitare il diritto di accesso all’aborto, ad esempio. Ci piacerebbe poter non solo affermare, ma anche constatare che sul nostro utero decidiamo noi, ma purtroppo non è ancora così, complice anche il mito secondo cui se inserisci qualcosa in vagina rischi di “perdere la verginità”, all’interno di un’ottica culturale in cui il concetto di verginità e l’idea che da esso dipenda il valore di una donna è comunque altamente problematico. 


Cartello in supporto della campagna #NoMoreLimits per la Giornata Mondiale della Salute Mestruale nel 2018

Ho più volte nominato le pubblicità degli assorbenti e qui abbiamo un grosso problema. A meno che non siate persone nobili che mestruano e abbiate constatato la presenza di sangue di effettivo colore blu nei vostri slip, scommetto che il vostro sangue è rosso, e allora non si spiega perché gli spot sui prodotti mestruali, al momento di enfatizzare le loro proprietà assorbenti, mostrino un liquido blu che non ha nulla a che fare, né per colore né per consistenza, col sangue mestruale.
Poiché gli assorbenti sono un’invenzione relativamente recente, anche la storia della loro pubblicità lo è. Negli anni Ottanta e Novanta, oltre all’ambiguo liquido blu, si attribuivano loro aggettivi come “sottile”, “fresco”, “invisibile”, “immobile”, “libero” e si vedevano donne muoversi in maniera leggiadra e sicura. Uno spot della Lines del 1992 mostrava donne che prendevano il pacco di assorbenti dallo scaffale del supermercato e parlavano della novità delle ali senza alcuna vergogna.
Ma è proprio quest’aura di vergogna e invisibilità a rappresentare il problema: perché mai dovremmo vergognarci di avere le mestruazioni? Perché dovremmo volerle nascondere se le consideriamo una caratteristica biologica normale? E cos’è che spaventa tanto gli uomini, tanto avvezzi a film di guerra dove il sangue scorre a fiumi, se quella stessa sostanza esce dalla vagina di una donna?
Il brand di assorbenti Nuvenia, nel 2017, ha eliminato dai suoi spot il sangue blu per sostituirlo con vero sangue rosso e nel 2020 ha ideato una pubblicità che ha scatenato una forte indignazione per “contenuto non appropriato aз minori”, scandaloso evidentemente anche per gli uomini adulti e per qualche donna. Nella pubblicità, tra le altre cose, si vedono slip macchiati di rosso, il sangue che scorre lungo le gambe durante la doccia, una donna che toglie un assorbente sporco e un libero passaggio di assorbenti. E io, che le mestruazioni le ho, vi dico che questa è la vita vera: tutte le immagini mostrate sono vere. Sì, il sangue è rosso e abbondante. Sì, il sangue scorre nello scarico della doccia. Sì, se non metto l’assorbente anche gli slip si macchiano. E sì, ancora pochi marchi rappresentano il sangue e le mestruazioni nel modo corretto nelle loro pubblicità ed è una battaglia necessaria, quella della rappresentazione.
Così come è importante evitare aggettivi come “invisibile” o “fresco”, dato che l’unica cosa che chiediamo agli assorbenti è che siano comodi e siano fatti di materiali sicuri.


Un fotogramma dello spot di Nuvenia del 2020

E proprio sui materiali degli assorbenti si apre un’altra questione. Come si accennava in precedenza, tra gli anni Settanta e Novanta si sono verificati moltissimi casi di persone che mestruano con sindrome dello shock tossico dovuta all’uso di assorbenti interni. Quindi non è proprio vero che possiamo sentirci sicur3 durante il flusso, almeno non dal punto di vista della salute.
C’è da dire che la vagina ha una membrana mucosa a rivestirla, la quale è una delle parti più assorbenti del nostro corpo, capace quindi di assorbire anche sostanze tossiche. Gli assorbenti interni sono solitamente composti da rayon e cotone non organico, di solito sbiancato col cloro, ma anche da polveri super assorbenti (SAP) e derivati chimici del petrolio, come la polvere di polimero, col compito di trasformare i liquidi in gel per aumentare l’assorbenza. Inoltre, il processo di sbiancamento col cloro rilascia diossina e spesso e volentieri vi si aggiungono fragranze e ftalati per renderli profumati e delicati. Non vi è passata la voglia di indossarli?
Ne sono convinta, ma, come dicevamo prima, non tutte le persone possono o vogliono evitare di usarli, quindi la sicurezza di un prodotto igienico come l’assorbente usa e getta è un diritto deз consumatorз e le case produttrici devono essere trasparenti su questo aspetto, anche grazie alla garanzia delle normative, tutt’oggi carenti. 

Infine, affrontiamo l’elefante nella stanza. Quante volte ci siamo sentitз dire “lasciala stare, sta in quei giorni là” o “è isterica per via delle sue cose”? Ecco, a parte ribadire che “quei giorni là” e “le sue cose” si chiamano mestruazioni, a livello medico esistono due disturbi, definiti sindrome premestruale e disturbo disforico premestruale.
Molte persone che mestruano, durante le varie fasi del ciclo, avvertono diversi sintomi, collegabili alle oscillazioni ormonali e che riguardano la sfera comportamentale, psicologica e fisica: c’è chi li accusa di più (5-8% della popolazione mestruante, si stima), c’è chi li accusa di meno. Stiamo parlando di: sensazioni di ansia e nervosismo, malumore, rabbia e irritabilità, stanchezza fisica e psicologica, letargia, mancanza di energia, cambiamenti nell’appetito, insonnia o ipersonnia, gonfiore del seno, mal di testa, dolori articolari e muscolari, ritenzione idrica con conseguente aumento del peso e sensazione di gonfiore e tanti, tanti altri. Così tanti che la già citata Thiébaut, nel suo saggio, si domanda se questa sindrome esista davvero perché, data l’estensione temporale della presenza di questi sintomi, vale la pena domandarsi come li si possa imputare esclusivamente agli ormoni dato che le circostanze della vita, i traumi, le proprie identità che si intersecano e che possono comportare discriminazioni hanno un forte impatto, forse anche maggiore delle mestruazioni. Perciò, poiché la PMS è stata descritta per la prima volta negli anni Trenta, potrebbe essere stata influenzata dal mito dell’irrazionalità femminile che ridurrebbe le capacità di ragionamento delle donne (siamo nel Novecento, le ricerche erano solo sulle donne cis), da una reminiscenza delle credenze e degli stereotipi antichi sull’utero, che portò alla definizione di isteria e alla limitazione dei diritti (ad esempio il voto) delle donne. Conseguentemente, negli anni Duemila si sono moltiplicati gli studi scientifici che notano un’eccessiva medicalizzazione e patologizzazione dei sintomi psicologici ed emozionali, che dimostrano come le implicazioni sociali siano molto più impattanti degli ormoni in sé per sé. 

Tuttavia, esiste una tutela giuridica per le donne cis (sì, non per tutte le persone con utero, ma di questo problema abbiamo già parlato): il congedo mestruale. Quest’ultimo permette di prendersi permessi retribuiti durante le mestruazioni, fondamentale per coloro che accusano dolori forti e invalidanti.
In Italia non è riconosciuto come diritto legale e non c’è una legge che lo regoli, anche se alcune aziende hanno iniziato a garantirlo autonomamente. Il dibattito, tuttavia, è aperto e sulla cresta dell’onda soprattutto di recente, grazie a diverse proposte per promulgare delle leggi formali sul tema; la questione accende molto gli animi, divisi tra chi ritiene che il congedo mestruale potrebbe aiutare le persone che mestruano a gestire meglio i sintomi e fermarsi nel momento in cui continuare a lavorare (o a svolgere qualsiasi attività quotidiana) diventa davvero difficile e chi pensa che invece avalli gli stereotipi sulla fragilità femminile.
Nel 2016, è stata depositata in Parlamento una proposta di legge per istituire un congedo di tre giorni al mese retribuiti, ma la maggioranza non si è dimostrata a favore.
E nel resto del mondo? In altri paesi esiste una legislazione formale: in Spagna, ad esempio, è stata approvata una legge su un congedo per le donne che soffrono di mestruazioni dolorose e invalidanti, che garantisce tre giorni al mese sulla base di un certificato medico ed è stata anche garantita la distribuzione gratuita di prodotti per l’igiene mestruale negli enti pubblici, nei centri femminili, nelle scuole e nelle carceri. Oppure, in Giappone, il congedo mestruale esiste già nel 1947: qui le donne hanno diritto a un numero illimitato di giorni di congedo mestruale, che però non sono retribuiti. A Taiwan, invece, vengono garantiti fino a tre giorni di congedo mestruale all’anno (che sono pochi) retribuiti al 50% e parificati alla malattia. Ancora, in Zambia, le donne possono assentarsi dal lavoro per un giorno al mese senza fornire un certificato medico e senza avvisare.
Sicuramente, siamo ancora indietro rispetto al tema, soprattutto a livello legislativo, ma è necessario un cambiamento culturale e strutturale: infatti, le leggi sono prevalentemente scritte da uomini cis, privilegiati che non hanno idea delle necessità delle persone che mestruano; inoltre, è utile ribadire che bisognerebbe estendere questi benefici a tutte le persone che hanno le mestruazioni, non solo alle donne.

A MO’ DI CONCLUSIONE: QUALCHE FALSO MITO SULLE MESTRUAZIONI

Per concludere questo nostro percorso – e vi ringrazio per avermi accompagnata –, elenchiamo qualche falso mito sulle mestruazioni che tuttora persiste nella nostra società e che ha un impatto negativo sulle persone che mestruano. Eccoli di seguito:

  • DURANTE LE MESTRUAZIONI È MEGLIO NON CUCINARE E NON OCCUPARSI DELLE PIANTE. Le credenze sul fatto che chi ha le mestruazioni faccia impazzire la maionese e appassire le piante sono ormai state smentite, eppure persistono nell’immaginario comune. Le mestruazioni non rendono impurз coloro che le hanno.
  • NON SI POSSONO AVERE RAPPORTI SESSUALI CON LE MESTRUAZIONI. Questo mito ha molto a che fare col patriarcato: parlando di pubblicità, abbiamo detto che gli uomini temono la vista del sangue, quindi figuriamoci il contatto, soprattutto intimo. In realtà, non ci sono controindicazioni e dipende sempre dalle scelte del singolo individuo e dalle dinamiche relazionali.
  • NON CI SI PUÒ LAVARE DURANTE LE MESTRUAZIONI PERCHÉ L’ACQUA FREDDA BLOCCA IL FLUSSO. In realtà, durante il ciclo mestruale le mucose sono più sensibili del solito e il contatto coi prodotti mestruali (dati i materiali di cui abbiamo visto essere composti o magari una cattiva detersione di quelli riutilizzabili) può portare a irritazioni e infezioni, perciò è bene mantenere una corretta igiene. Per quanto riguarda l’acqua fredda, invece, un eventuale rallentamento o blocco del flusso può seguire la vasocostrizione dovuta alla temperatura bassa, ma è assolutamente reversibile quando si torna a una temperatura fisiologicamente confortevole.
  • NON SI PUÒ PRATICARE SPORT DURANTE IL FLUSSO. Anche questo è un falso mito dovuto alla vergogna e alla paura di sporcarsi e mostrare il sangue: chiaramente, muovendosi in modo dinamico come lo sport richiede, aumentano le probabilità di sporcare i tessuti, ma la scelta se allenarsi o meno dipende dalla quantità di energia e dai dolori che si hanno, insieme ad altri fattori non legati alle mestruazioni. Anzi, molte persone affermano di sentirsi meglio grazie alle endorfine rilasciate dal corpo durante l’attività fisica, che alleviano il dolore.
  • NON È POSSIBILE RIMANERE INCINT3 DURANTE LE MESTRUAZIONI. Il grado di fertilità aumenta e diminuisce durante tutto il ciclo mestruale a causa delle oscillazioni ormonali e durante le mestruazioni, anche se le probabilità sono più basse, non è del tutto impossibile rimanere incintɜ, anche perché gli spermatozoi rimangono nell’utero per qualche giorno e possono fecondare l’ovulo in un secondo momento.
  • GLI ASSORBENTI INTERNI FANNO PERDERE LA VERGINITÀ. Qui abbiamo a che fare con l’equazione verginità=imene, ma in realtà la verginità è un costrutto culturale che non ha niente a che vedere con l’integrità di questa membrana interiore, l’imene, che può rompersi, ad esempio, per l’attività sportiva, e in generale non è presente in tutte le persone con utero e assume forme diverse. Perciò, anche se è vero che gli assorbenti interni, inseriti in vagina, potrebbero rompere l’imene se presente, ciò non si ricollega alla perdita della verginità perché l’equazione di cui su non esiste. Inoltre il fatto stesso di attribuire un valore così alto allo status di vergine – che si applica peraltro solo alle persone con una vagina – è in sé problematico e frutto di una cultura patriarcale.
  • LE MESTRUAZIONI DI CHI VIVE NELLO STESSO AMBIENTE E HA STRETTI RAPPORTI TENDONO A SINCRONIZZARSI. Sebbene su questo mito ci siano tantissimi studi a favore, si è giunti alla conclusione che la simultaneità tra i flussi mestruali di più persone che lavorano o vivono insieme è solo una coincidenza, anche perché la durata delle mestruazioni cambia da persona a persona e di mese in mese.

Questi falsi miti ci mettono in guardia su quanto la disinformazione sul tema della salute mestruale la faccia da padrone: è un argomento considerato femminile, quindi inevitabilmente viene bistrattato dalla comunità scientifica, perciò le credenze popolari e antiche vengono ritenute ancora affidabili. Ma è proprio per questo che dobbiamo sempre più parlare di mestruazioni – usando questa parola – e rappresentarle nel modo corretto, diffondendo le informazioni corrette e necessarie affinché ogni persona che mestrua possa sentirsi libera di vivere questo aspetto della sua biologia, senza discriminazioni individuali, sociali ed economiche. 


Auto ritratto della poeta e autrice Rupi Kaur contro il taboo delle mestruazioni

THE BLOOD OF DISCORD: WHY WE NEED TO TALK ABOUT MENSTRUATION 

TW: eating disorders

On the morning of December 8, 2007, I was at my grandmother’s house for the customary Immaculate Conception’s family lunch. When I went to the bathroom and lowered my black briefs – they had a white inner pocket – I found that they had lost their immaculate color and had turned a sort of brown-red colour. “I pooped my pants without realising,” thought 11-year-old me. Far from being clueless, I had already noticed the dirty pants the day before. Desperate, I called my mother, who told me to keep calm – it was all perfectly normal. However, at the time she didn’t go on to explain what had just happened. She did so only later, mostly through hints.

Thus began my menstrual history, dotted by many episodes, some of which I will recall below.

I remember the recurring fateful questions. “Can you check to see if I am dirty back there?” I would ask the schoolmates with whom I was intimate. Question which was inevitably followed by a negative answer and a furtive hiding of the tampon before going to the bathroom. 

I remember that for a while I was fixated on asking my friends if they too had menstruated for the first time and bombarding them with questions on the subject – partly out of curiosity, partly to understand more.

I remember disliking the huge tampons my mother gave me every month. I remember being envious of the people around me, with their thin pads wrapped in purple paper, my inability to tell my mother (among many other things) that I wanted those ones because I didn’t like the bulkiness. And I remember my surprise at the ease with which she agreed to my request when I was finally able to formulate it.

I remember the disappearance of the blood when, in the fall of 2012, the symptoms of anorexia had become evident (to everyone but me) and the prayers – I was very religious back then – for my bleeding to return. But I also remember the shame I felt at its absence and the constant changes of topic to avoid talking about it.

I also remember at one point thinking that I was lucky, that it was better to live without it, although I’d never had – thankfully – particularly heavy or painful menstruation, that it was one worry off the list. But I also remember that whenever I looked at a girl, I couldn’t help but think that it was all right for her, that she was menstruating – probably in that very moment.

I remember, around the time of my university internship, admitting to my gym instructor that I no longer felt like a woman because my menstruation came whenever it wanted – at the time my menstruation had returned for a few months, then disappeared again. I remember expecting the look of pity in my mother’s eyes when, every month, I would disappoint “womanly” expectations. The consolation in hearing the words “you are no less of a woman if you don’t menstruate,” the subsequent reconsideration of my discomfort and my perception of myself. 

I remember the yoga class I enrolled in because I had realized that stress played a major role in my – failed – menstrual balance; the asanas that were supposed to promote fertility and that I dutifully performed; the coincidence that after only one week of classes my bleeding made its reappearance. I would later come to realise that I had been ovulating since before signing up, but the illusion was sweeter. 

So why talking about MY menstruation to talk about menstruation in general?

I believe in the power of words and, like the second-wave feminists, in expressing one’s individual condition to connect it to collective social and cultural processes. To talk about my menstruation is, for me, to identify the numerous signs of a stigma attached to it – a stigma which pervades our culture and has concrete consequences in people’s lives. 

Are you ready to embark on this journey?


Menstrual products illustration by queer author Sarah Epperson

LET’S TALK NAMES

As you might have noticed, so far I have often used the term “menstruation” to refer to the bleeding that most people with a uterus experience cyclically in their fertile age. I believe, in fact, that calling something by its name can help us identify it clearly, reaffirming its existence. As much as I love poetry and often use metaphors in my everyday speech, in this case I find it appropriate to use the word “menstruation.” 

When I had menarche (another key word, it means “first menstruation”), my mother talked to me about “menstruation”. Inexperienced as I was, my mother represented my primary source of vocabulary, so I kept using the term even outside the family context. Only some time later would I undergo a kind of adjustment – hearing people call it “period,” I began doing so too. And it was then later, when I finally came to feminism, that I understood the difference between “cycle” and “menstruation” and took up the latter again, this time intentionally, with the underlying political reasons of visibility.

The menstrual cycle, as it turns out, has an average duration of 28 days and is composed of several phases, namely:

– MESTRUAL PHASE: this is the actual bleeding period, which lasts from 3 to 7 days on average, in which the mucosa of the endometrium (inner part of the uterus) falls apart. Along with it also go the recently formed blood vessels, thus causing the loss of blood and other substances (the endometrium itself, vaginal secretions and cervical mucus). Some people lose more blood and others less.

– FOLLICULAR PHASE: lasting an average of 14 days, this is the phase in which the follicles mature, thanks to the intervention of the FSH, a hormone produced by the pituitary gland. This phase may be accompanied by cervical mucus discharge and, generally, an increase in libido and good mood.

– OVULATION PHASE: One of the many matured follicles bursts and, thanks to the intervention of LH (another hormone), it releases its egg. The egg goes from the ovary into one of the fallopian tubes, where it can be fertilized. In this phase, oestrogen and testosterone are at their peak.

– LUTEAL PHASE. The follicle transforms into the corpus luteum, which produces progesterone. In turn, the latter renders the endometrium welcoming in case of pregnancy. If no fertilization takes place, the hormone drops and the endometrium falls apart, preparing for menstruation. This is the time when you might experience so-called PMS (pre-menstrual syndrome), but we’ll discuss that later.

Now, I am not a doctor, so for more in-depth information do rely on more exprienced people than myself. But, based on what is summarised above, why would we ever use the name “cycle” to indicate a single phase out of four, especially when together they make up a much more extensive and complex process? 

Yet, even when we do not use the word “cycle,” we can find very bizarre linguistic alternatives, which vary greatly as we move across the globe. Dunja Kokotović, Global Brand Manager at Intimina, says there are more than 5,000.

For example, in Italy it is rather common to hear that “the Marquis has arrived”. This refers to the red overcoats that noblemen used to wear to distinguish themselves from commoners. The expression “I have my things” is also popular – perhaps a legacy of capitalism and its eagerness for possession. 

In France, on the other hand, historical references hold sway: “the British have landed” is used in reference to the 1815 Battle of Waterloo, when British soldiers invading France wore red uniforms. Staying with geopolitical references – we shall see that our bodies are sites of colonisation too – in Belgium and Greece it is common to say “the Russians have arrived”. Meanwhile, in the Netherlands, one “hoists the red flag” or the “Japanese flag” and in Denmark “the Communists are under a gazebo”.

On the other hand, in addition to the Italian marquis, it is possible to receive visits from such guests as a the grandmother (Poland), Aunt Flo (United States), painters (United Kingdom), a cousin (Germany), “M” (China, not a reference to Lang’s film), a vampire or Andrés (“el que viene una vez por més” – “he who comes once a month” in Spain).

Also, in most parts of the world we can be “on those days,” on “blue day” or “women’s day” (Japan), on “holidays” (Russia and China), on “ketchup week” (France). 

Then, during our menstruation we may be full of flowers, poppies, moons, rosaries, tomato sauces, blueberries, strawberries, or we may even be visiting “Niagara Falls” or still have “work in progress” or “technical inspections.”

An illustration depicting euphemisms used for menstruation, by artist Hazel Mead 

One particular expression is “avoir ses ourses”, meaning “to have bears.” As Thiébaut relates in her book Ceci est mon sang (This is My Blood), this would be a reference to the goddess Artemis, whose name means “mighty bear.” According to both Aristotle and Plutarch, the bear is a human-like animal since it “copulates while lying down, sometimes stands upright and can walk on its hind legs, and feeds its young as tenderly as a mother would”. It is thanks to these characteristics that in Europe the bear became one of the most popular totems. Thus, the author suggests, we can link the bear totem to menstruation, whose naming is a taboo. In a Freudian sense the totem, transmitted hereditarily, becomes a marker of one’s clan, thereby linking to the concept of exogamy.

Going back to Artemis, there is further connection to the animal. As the story goes, a bear once found refuge in one of the goddess’ temples, but, having scratched a girl who had teased her, the bear was killed by her brothers. Artemis, offended, hurled a plague on Athens. From that day onwards, young Athenian women were sent to the temple to learn how to act like “proper ladies”. There, they were subjected to an initiation to marriage, during which they learned weaving, playing music, dancing and running on foot, while being in charge of the secret rituals of the shrine. During the sacred hunt of Artemis, the girls would wear a robe called krokotos, resembling the fur of a bear, and then strip off their clothes and run naked around a fire. However, this would often lead to abductions and rapes. 

In short, we dislike naming menstruation. But what’s wrong with using a word with an objective meaning? The word comes from the Latin menstruatio, meaning “monthly,” in turn a derivative of menstrum, an adverb of time meaning “once a month.” 

The unwillingness to name the event is undoubtedly a taboo imposed by patriarchal culture. Consequently, this affects how menstruation is experienced and regarded socially.

LIVING WITH A PERIOD, FROM ANCIENT TIMES TO THE PRESENT

Since patriarchy is not a recent institution, neither is the taboo of menstruation: the two are, in fact, closely related. It will suffice to go and read a few passages from Greek philosophers or sacred texts of the three major monotheistic religions to understand the extent of such phenomenon:

“But it would not be easy to find something more prodigious than the menstrual flow of women. At the coming of a menstruating woman the must turns sour; at her contact the crops become barren; grafts die, the shoots of the gardens burn, the fruit of the trees by which the woman has stopped falls; at her mere glance the luster of mirrors becomes tarnished, the tips of blades blunt, the splendor of ivory darkens, the bees in the hives die; even bronze and iron instantly rust and bronze takes on an unpleasant odor. Dogs, if they taste menstrual fluid, become rabid and their bite is contaminated with a deadly poison.” (Pliny the Elder, Natural History, Book VII, Ch. XIII)

«In the case of particularly lustrous mirrors, in fact, when women at the time of menstruation look into the mirror, on the surface of the mirror itself a blood cloud is generated as it were. […] Therefore when menstruation is generated, because of the disturbance and inflammation of the blood, the difference in the eyes is not clear to us but it is there (the nature of semen and menstruation, in fact, is the same): the air is moved by it, and the air that is on the mirror, being in continuation, makes it such as the affection that it undergoes. […] In this way very clean garments become quickly soiled.» (Aristotle)

«When a woman has flow of blood, that is, flow in her body, for seven days she will remain in menstrual impurity; anyone who touches her will be unclean until the evening. Every bed on which she will have put herself to sleep during her menstrual impurity will be unclean; every piece of furniture on which she will have sat will be unclean. Whoever touches her bedding shall wash his clothes, bathe in water and remain unclean until evening. If an object is on the bed or on anything on which she has sat, anyone who touches this object will be unclean until the evening. If a man has an intimate relationship with her, menstrual uncleanness shall come in contact with him: he shall remain unclean for seven days, and every bed on which he lies shall remain unclean.» (Leviticus 15:19-24)

«Do not have carnal contact with menstruating women; keep your distance from them until they have purified.» (Quran, sura II, verse 222)

In short, either words about menstruation fail us and we resort to metaphors and euphemisms, or these words are too sharp. Yet, we are talking about a physiological feature of bodies with a uterus. That same blood flows abundant in wars – without anyone caring that much about spilling it or displaying it. Therefore, there is no other reason but patriarchy and its obsession with control over bodies that are not cis-male, straight, able-bodied, and a million of other specifications.

An illustration of Egyptian women taking care of their private business

And yet, these words are not destined to remain as such, but rather to be converted into actions. And menstruating bodies have known this all too well since ancient times.

For example, in ancient Egypt, it was customary to insert linen or softened papyrus into the vagina, as recounted in Kahun’s Gynecological Papyrus. In ancient Greece, on the other hand, the stigma around menstrual blood, considered a residue of undigested food and a potential vehicle for disease and misfortune, forced women to withdraw into the gynoecium and use – internally – gauze, animal skins, paper, moss and herbs to diminish the flow. In ancient Rome, people would tie woolen bandages together and hook them on their belts under their clothes. Supporting this practice was the idea that women had the exclusive task of being mothers, so menstruation was considered “the cry of a disappointed womb,” a wasted opportunity to produce (male) children who could continue the family name. 

With the spread of Christianity in the Middle Ages, the ideal of womanhood changed and the figure of the virgin was celebrated above all else. The virgo was an unblemished woman, wholly consecrated to God, and her flow – considered liberating – was proof of her purity. Despite this, superstitions about menstruation persisted, so menstruating people, on flow days, had to live secluded and hide their blood using cotton cloths or a very absorbent moss called sphangnum palustre, held down by sewn-on shorts. They often wore red clothes to hide unexpected leaks.
It was in the Renaissance period that menstruation was first called “those days of the month”. Red clothes continued to be used to camouflage the color of blood, while cotton or wool cloths, sponges, mosses and animal skins maintained their popularity. In the seventeenth and eighteenth centuries, things did not improve: it was believed at the time that linen should be avoided because it led to the circulation of disease and that washing increased the flux. To conceal bad odors, large quantities of perfumes and ointments were used, and only the wealthiest women could wear culottes.

From the late nineteenth century, particularly from the Victorian age, things slowly began to change, partly because sanitary conditions were gaining more importance As Charles Delucena Meigs recounts in Obstetrics: The Science and the Art (1852), “For the most part, as soon as the menses are perceived to begin to flow, the woman applies a T-bandage, consisting of a napkin, called the guard, folded like a cravat, which is pressed against the genitalia, while the ends are secured to a string or riband tied around the body above the hips; but I have seen some, not a few women, who assured me they had never used any other precaution than that of putting on a thicker petticoat for fear of the exposure of their condition. […] Many female patients have assured me they never use less than a dozen napkins upon each catamenial occasion— and fifteen, and even twenty such changes are not very rare in the history of healthy menstruations.”


From these words, we can gather several details. Firstly, there were no underpants or specific products capable of absorbing menstrual blood, secondly women retained the fear of showing it openly, thirdly, gynecology was the prerogative of men – like all medicine after all. Additionally, we must point out the use of the term “healthy woman”, since at that time menstruation was not as common as it is today, given the numerous and continuous pregnancies and malnutrition suffered by people of the poorer classes. 

Tampons akin to modern ones entered the market only later,originating from the U.S. and Germany: in 1896, the Johnson & Johnson company began to market its Lister’s Towels, named after Joseph Lister, the surgeon who first used antisepsis in surgical practice. At the same time, Hartmann’s Hygienic Towelettes began to be sold in London. However, these products were not very successful, not so much because they did not fulfill their purpose (although they were far from being completely antiseptic) or because of the price, but because women felt ashamed to buy them.

An ad for Lister’s Towels

During World War I, Cellucotton, a material used to absorb the blood of the wounded, became popular in military hospitals. The nurses, in light of its absorbing power, decided to use leftovers and clippings to make tampons. After the end of the conflict, the company tried to market them as such, with no luck. 

It is then reported that, in the 1920s, Dr Pierre’s Hygeiaforms were advertised in London’s Old Operating Theatre. However, the advertisement was misleading, claiming that these pads not only had antiseptic and germicidal properties, but also “healing, strengthening and tonic effects for the most delicate vaginal tissues” and could cure all “diseases of the pelvic organ,” including amenorrhea, dysmenorrhea and menstrual pain. After an investigation, the New York court in 1931 banned them. 

At the same time, Kotex pads, made by combining cotton and fabric, were introduced, and revolutionising pads’ mode of sale: it was suggested that merchants display them on counters next to a payment box, so that women would not have to ask for them directly. In addition, women’s underwear began to be more legless, which allowed for better placement of the pads.

The 1930s saw the revolutionary introduction of the first internal tampon, the Tampax, registered in 1936 by the Kimberly-Clark Corporation. Although the inventor was John Williamson (the reader shall notice the historical preponderance of men in the field), the company needed a woman to test them. That woman was Gertrude Voss Schulte-Tenderich Sears. The latter then bought the patent for $32,000 and founded her own company under the name Tampax. 

The internal tampon had already been used in the past (remember ancient Egypt?), but there were qualms about its use, mainly because many of the women who had used it – and perhaps kept it inside the vagina for too long – suggested it could cause irritation and infection. Such claims were even supported by doctors, so that, in 1952, Tampax declared that all these fears had no scientific basis and that their tampons did not cause loss of virginity (another topic of concern).

Picture of Gertrude Voss Schulte Tenderich Sears, founder of Tampax

In the 1960s and 1970s culture began to shift quikly: in feminist circles people were challenging the idea that virginity depended on the integrity of the hymen, many taboos fell and Tampax’s popularity increased. That was until, between 1979 and 1996, there were more than 5 thousand cases of toxic shock syndrome (TSS) in women using tampons (not only by the brand). The incident shed light onto the lack of regulation on the products, especially regarding their production and composition, which included petroleum derivatives such as polyester.

However, alternatives began to spread.

In the 1980s, disposable sanitary napkins – a hitherto uncommon practice since the use of washable and reusable cloths each month was preferred – became increasingly popular. By 1969, Stayfree had invented the first adhesive menstrual pad, making the menstrual belt disappear altogether.

The menstrual cup, whose earliest aluminum and hard rubber prototypes dated back to 1860, was released in its latex version in 1937 by U.S. actress Leona Chalmers. Shortages of basic materials that occurred during World War II meant that the cup needed perfectioning in the 1950s. The Tassette company bought the rights to the menstrual cups and began an awareness campaign. Samples were sent to nurses, asked to recommend them to those in need of products for their menstrual cycle. It was only in the 2000s that the silicone version was introduced.

PERIOD POVERTY, AMENORRHEA, BLUE BLOOD AND OTHER THINGS WE DON’T TALK ABOUT ENOUGH 

Why talking about menstruation as a feminist issue

The question may seem trivial, but it is not. After all, it is a private matter, and there are few people to whom we confess that we are menstruating or with whom we talk about the menstrual pains that we suffer. Yet, we can surely see how this topic involves several aspects that we cannot ignore. So far we have outlined a history of menstrual products, taking in little consideration who actually uses them. 

So, who uses them? Women, you might say. But that’s not entirely correct: not only and not all of them, which is why we need to start talking about “menstruating people”. In reality there are cases where automatically associating the term “woman” with “menstruation” is incorrect. In a 2020 tweet, for example, notorious TERF and author J.K. Rowling declared herself very skeptical and inappropriately ironic about the proposed expression, “menstruating people.”

First of all, there is a broad spectrum of people who do not identify with the gender they were assigned at birth. They can be part of the trans* spectrum (those identifying with multiple genders, a different one from the one assigned at birth, or none at all), and/or intersex. As a matter of fact, a person’s body does not determine – nor it can give us clues – as to their gender identity. Nonetheless, because this awareness is far from being widespread, trans* people may experience gender incongruity when it comes to dealing with menstruation. They often have to deal with a hostile medical and family environment that prevents them from accessing medical care and even basic menstrual products. Even today, in supermarkets it is not uncommon to find sections labeled “feminine hygiene products”. Men’s public restrooms also lack baskets and containers to dispose of tampons and pads. Advertisments for menstrual products only feature cisgender women (we will come back to the subject of ads and representation later on). All this leads menstruating people who do not identify as women to experience profound discomfort when they have to change their pads in public bathrooms or when buying these products at the supermarket. This is also a broader issue, considering that often partners, husbands and friends of menstruating people find it shameful to delve into rose-colored aisles and check out tampons boxes. It is precisely for such reasons that gynecology cannot have cisgender women as its exclusive object of study. The spectrum of gender and biological sex is extremely varied – a spectrum indeed, not opposing poles. Therefore, our knowledge and practice must be equally as broad, welcoming, and inclusive, in order to guarantee the right to healthcare for all.


Ad sponsoring the use of menstrual products for trans* people

The second reason why using the expression “menstruating people” is correct and respectful is that not even all cis women menstruate. Do you remember what I told you earlier about feeling “less of a woman” because of the amenorrhea caused by my eating disorder? At that time I would have loved to buy packs and packs of pads but I didn’t need them, so I couldn’t. Instead, I didn’t tell people and felt that I deserved my mother’s reproachful looks. 

In order to have her lack of menstruation be socially accepted, a woman must either be pregnant or be breastfeeding – thus fulfilling what is considered her main function and her sole purpose in life. The only viable alternative is to be older and in menopause – in which case she is assumed to have already fulfilled her reproductive role, thus no longer being of any use. In reality, the former condition is widely more accepted than the latter.

However, reality is far more diverse, and amenorrhea (i.e., the absence of menstruation for at least three consecutive menstrual cycles) can have several causes: eating disorders, excessive sporting activity relative to recovery capacity, genetic disorders, polycystic ovary syndrome, Turner syndrome, Kallman syndrome, primary ovarian insufficiency, use of drugs such as the birth control pill (and here again we could open up an entirely different can of worms) as well as antidepressants and antipsychotics, malfunctions of the pituitary gland, thyroid or hypothalamus, tumors, radiotherapy, the presence of scars in the uterus from a surgical procedure, and more. I will not pretend to be able to identify each and every cause – for that you should go to an expert. 

And yet, in all of the aforementioned cases, society will not fail to make us feel at fault: it is an insidious form of body control, one that determines when it’s okay for us not to menstruate, punishing those who deviate from the path. 

But menstruation, and the menstrual cycle more generally, is a mere biological function that has nothing to do with gender and expresses itself through so many variations: amount of blood, length and frequency of the cycle, symptoms before and during menstruation. It is impossible to choose for one of them to be the norm, much less attribute all these variations only to feminine bodies. However, patriarchy needs a norm to impose, so that through it, it can control all bodies that differ from it.

Let us now turn to yet another aspect. As you might have noticed, I wrote that during amenorrhea I wanted to buy “packs and packs of tampons.” That is because, when I suddenly run out or know that my period is near, I can afford to leave the house, go into a store (without feeling triggered by signs about feminine hygiene or feeling observed, since I am a cis woman), choose the type that best suits my needs, spend the money, go home, wear them as needed, and, while I have them on, continue to do all my usual activities, such as studying, working, and exercising. I give all this one name: PRIVILEGE

I’m putting it down in capital letters so it is clearly understood. Like any privilege, it is not a fault, but those who have it must be aware of it, talk about it, and do something to address the inequalities. 

Let us start then with a definition: period poverty. By this expression, we mean the lack of access not only to menstrual products, but also to hygiene, safe spaces, education and employment that menstruating people experience precisely because of the stigma and shame attached to menstruation.


A march against period poverty, in favour of menstrual health for everybody 

I would like to take a minute to delve deeper into a specific topic. During the historical digression above, I barely mentioned menstruation during the Holocaust, precisely because I wanted to further explore the issue here. I once translated an article concerning the management of menstruation in concentration camps. It struck me that I had never before thought about this aspect of Nazi genocide. In the concentration camps, as Senator Liliana Segre recounts, for example, bodies were exposed to the gaze of strangers: “The despoliation of femininity, the shaving, the loss of menstruation, were a common occurrence for all women. Yes, we all suffered a lot from it. I used to have a lot of pain during menstruation, and I remember that one of my first thoughts arriving there was, what am I going to do when I get my period?”

Here again is that stigma we talked about regarding the absence of a menstrual cycle in childbearing age. In this case its reasons lie in the insufficient food supply and in the great psychological trauma. In addition, sanitary conditions were not good: water and underwear were lacking, pieces of fabric had to be stolen, then washed and hidden. Sometimes, menstruating could save someone from rape and experiments because the Nazis did not want to have relations with those who were bleeding. Amongst the horror, there was no shortage of female solidarity: older women taught the younger ones – some of whom had menarche during their imprisonment – how to deal with this. There was also joy to be found at the return of menstruation upon leaving the camps.

We can look at the experience of concentration camps to understand how menstruation is an indispensable aspect during humanitarian crises. Action Aid emphasizes that “periods don’t stop in a crisis” or at the very least not for everyone. Securing menstrual products and funds to purchase them should then be a priority. After all, menstruating people are some of the most affected groups in all humanitarian crises, including the current genocide in Palestine, as well as natural disasters which often affect developing countries. 

It is also estimated that one in ten girls in Africa misses school during menstruation, leading to an incomplete education (try adding up the average days of bleeding in a year, you’ll realise it’s a lot). This considerably lowers the likelihood of getting a job to sustain oneself, and thus increases the chances of early marriage and pregnancy.

In addition, there is also a broader economic issue: it is estimated that a packet of tampons costs more than a day’s pay in Malawi. Buying these products monthly – where and if they are available – has a considerable financial impact.

And if these things seem far away from us – and they shouldn’t – we need only look inwards: the Meloni government has brought the VAT on tampons, pads and menstrual cups back up to 10%, after the 5% drop established in the 2023 budget law. If this rate still seems low, we should remember that truffles are taxed 5% and collectible stamps at 9%, so perhaps we would be better off creating a woven blanket of truffle-flavored stamps for when we menstruate, it might just cost us less. The situation is unacceptable, considering, for example, that in Spain the rate is 4%, in France, Poland, the Czech Republic, Lithuania and Cyprus it is at 5%, while in Ireland the tampon tax does not exist at all and in Scotland tampons are free. It is indicative and somewhat contradictory then that this rate applies not only to menstrual hygiene products, but also to diapers and powdered milk, items usually used for newborns. In short, you might think that by generating offspring at least you’ll cut on tampon costs, but not so fast: there’s still a pretty penny to be spent on everything else you’ll need for your children.


Results of a survey about the tampon tax in Europe

On one hand, ignoring the economic aspect is impossible, especially in the increasingly wide-ranging crisis Italian families find themselves in – with single-income and/or single-parent families being the most impacted. On the other hand, we cannot overlook another aspect: the environmental impact. This is yet another global crisis in which menstrual products represent a sizeable fraction (not on a par with the private jets of the rich, of course). 

Menstrual products take over 500 years to decompose. An average of 12,000 disposable sanitary products are used every year, which then all end up in landfills. You do the math.

You might say: if you are so concerned about the environmental impact of menstruation, why not totally convert to reusable products? Nowadays, between absorbent briefs and menstrual cups, we are spoiled for choice. A survey by Intimina found that 59% of the (unfortunately, exclusively) cis women surveyed are conscious of the environmental consequences of external and internal pads when purchasing them. 42% have tried more environmentally friendly products (63% of them tried menstrual cups). In addition, disposable tampons made of organic cotton, which have a much shorter decomposition timeline, are widely available.

However, what would be the benefit of an imposition on the use of more environmentally friendly and reusable products? Not all menstruating people might want to use them. I bring forward my case as someone who was not aware of them until recently (have you ever seen a menstrual cup commercial on TV?) and who is afraid of not inserting them the right way and not feeling as comfortable as with external tampons. Not to mention that reusable products come at a high cost, and even if they make up for it in the long run, they may not be available to you (for example, if you use period panties, it is good to have at least two or three pairs).

What a person decides to do in their intimate sphere certainly has an impact (the personal is political), but meddling in such personal choices is a violation of individual freedom not dissimilar from restricting the right of access to abortion, for example. Aside from reaffirming our bodily rights, we’d also like to see this reflected in the world around us. Unfortunately, this is not yet the case. Myths like the one sustaining the risks of losing virginity by insert anything into one’s vagina are here complicit – specially considering the cultural framework where the concept of virginity and a woman’s worth are inextricably linked.


Sign supporting the #NoMoreLimits campaign for Menstrual Hygiene Day 2018

I have so far mentioned tampon commercials several times, but we are not done with their numerous issues. Unless you are of such noble blood that your menstruation comes out blue, chances are your bleeding is red. So why do menstrual product commercials all opt for a thin, light blue liquid that has nothing to do, either in color or consistency, with menstrual blood? One wonders.

Since tampons are a relatively recent invention, so is their advertising history. In the ‘80s and ‘90s, in addition to the ambiguous blue liquid, adjectives such as “thin”, “cool”, “invisible”, “immobile”, and “free” were ascribed to them, and women were seen moving gracefully and confidently. A 1992 Lines commercial featured women grabbing a pack of pads from the supermarket shelf and openly talking about the novelty of wings. 

But it is precisely this aura of shame and invisibility that is the problem: Why should we be ashamed of menstruating? Why should we want to hide them if we consider them a normal biological fact? And what is it that so frightens men, so accustomed to war movies where blood runs rampant, if that same substance comes out of a vagina?

In 2017, the tampon brand Nuvenia removed the blue liquid from its commercials to replace it with real red blood, and in 2020 it came up with an advertisement that sparked outrage for being “inappropriate for minors” – it was evidently scandalous to adult men and some women. The advertisement shows, among other things, red-stained panties, blood running down legs during a shower, a woman removing a used pad, and a free exchange of pads. As a menstruating person, I can tell you that this is what it actually looks like in real life. Yes, the blood is red and copious. Yes, the blood flows down the shower drain. Yes, if I don’t put a pad on, your panties get stained. And yes, still few brands represent blood and menstruation properly in their advertisements. The fight for representation is obviously still necessary. 

Just as it is important to avoid adjectives like “invisible” or “cool,” since the only thing we ask of pads is that they be comfortable and be made of safe materials.


A still from the Nuvenia 2020 ad

On the topic of tampons and their materials we must open up another issue. As mentioned earlier, between the ‘70s and ‘90s there were many reported cases of toxic shock syndrome due to the use of tampons. So we can’t even really say that we can feel safe during our flow. 

The vagina is lined with a mucous membrane, which is one of the most absorbent parts of our body, thus capable of absorbing toxic substances as well. Internal tampons are usually composed of rayon and non-organic cottonusually bleached with chlorine. But they also contain super absorbent powders (SAP) and petroleum chemical derivatives, such as polymer powder, with the task of turning liquids into gels to increase absorbency. In addition, the chlorine bleaching process releases dioxins, and fragrances and phthalates are often added to make them smell nice. Changed your mind about wearing them yet?

Regardless, not everyone wants to avoid them, so the safety of a hygienic product such as a disposable tampon is a consumer right. Manufacturers must be transparent, and this implies the existence of regulations, which are still lacking today.

Finally, the elephant in the room. How many times have we been told “leave her alone, it’s one of her days” or “she’s hysterical because of her things”? Aside from reiterating that “those days” and “her things” are called menstruation, we can also reference two medical disorders, called premenstrual syndrome (PMS) and premenstrual dysphoric disorder

Many menstruating people, during the various phases of the cycle, experience various symptoms, which can be linked to hormonal fluctuations and which affect the behavioral, psychological and physical spheres. There are those who notice it more (an estimated 5-8% of the menstruating population), and other who do less. The symptoms in question can include feelings of anxiety and nervousness, moodiness, anger and irritability, physical and psychological fatigue, lethargy, lack of energy, changes in appetite, insomnia or hypersomnia, breast swelling, headaches, joint and muscle pain, water retention resulting in weight gain and feeling bloated, among many others. They are in fact so many that Thiébaut, in her essay, wonders if this syndrome really exists. Given the symptoms’ extension in time, it is worth wondering how and if they can be blamed solely on hormones. She posits that life circumstances, traumas, and one’s intersecting identities (which can result in discrimination) might have a strong impact, perhaps even greater than menstruation itself. Since PMS was first described in the 1930s, its categorisation may have been influenced by the myth of female irrationality and reduced reasoning abilities. The influence of ancient beliefs and stereotypes about the uterus are clear. This then played into the definition of hysteria and the restriction of women’s rights (for instance, voting). In the 2000s, several scientific studies noted an over-medicalisation and pathologising of psychological and emotional symptoms, which show that social implications are far more impactful than hormones per se. 

However, cis women do have a form of legal protection (just them, not all people with uteruses, as previously mentioned): menstrual leave. It allows one to take paid leave during menstruation, which is essential for those experiencing severe and disabling pain. 

In Italy, sadly, it is not recognized as a legal right and there is no law regulating it, although some companies have begun to provide it of their own initiative. Recently, however, the debate has been active, thanks to several proposals to enact formal laws. The issue is an inflammatory one, dividing those who believe that menstrual leave could help women manage their symptoms and take a break when work or daily activities become difficult and those who think that it endorses stereotypes about female fragility.

In 2016, a bill was filed in Parliament to establish a three-day paid monthly leave, but the majority did not support it. 

What about the rest of the world? Other countries already have formal legislation. In Spain, for example, an approved law establishes a leave for women suffering from painful and disabling menstruation. The law guarantees three days off a month – pending medical certificate – and also guarantees free menstrual hygiene products in public institutions, women’s centers, schools and prisons. In Japan, menstrual leave has existed since 1947: here women are entitled to an unlimited number of menstrual leave days, but they are unpaid. In Taiwan, on the other hand, they are granted up to three days of menstrual leave per year (not many) paid at 50% rate and considered equal to a sick leave. Still, in Zambia, women can be absent from work for one day a month without providing a medical certificate and without notice. 

Clearly, we are still far behind on the issue, especially at the legislative level. A cultural and structural change is needed. Our laws are mostly written by cis, privileged men who know nothing about the needs of menstruating people. It is worth reiterating that we should extend these benefits to all menstruating people, not just women.

TO WRAP IT UP: SOME FALSE MYTHS ABOUT MENSTRUATION

To conclude this journey of ours – and I thank you for joining me – let’s list some false myths about menstruation that still persist in our society and have a negative impact on menstruating people. Here they are as follows:

  • DURING MENSTRUATION, IT IS BEST NOT TO COOK OR TAKE CARE OF PLANTS. Beliefs about menstruating people ruining mayonnaise and wilting plants have now been disproven, yet they persist in the social imaginary. Menstruation does not make those who have it impure.
  • YOU CANNOT HAVE SEXUAL INTERCOURSE WHILE MENSTRUATING. This myth has much to do with patriarchy. When talking about ads, we mentioned how men fear the sight of blood, so it goes without saying that intimate contact is also a problem. In reality, there are no contraindications and it always depends on the individual’s choices and relationship dynamics.
  • YOU CAN’T SHOWER DURING MENSTRUATION BECAUSE COLD WATER BLOCKS THE FLOW. During the menstrual cycle, mucous membranes are more sensitive than usual, and contact with menstrual products (given the materials they are made of or perhaps poor cleansing of reusable ones) can lead to irritation and infection, so it is good to maintain proper hygiene. As for cold water, on the other hand, any slowing or blockage of flow may follow vasoconstriction. This is however completely reversible when returning to a physiologically comfortable temperature.
  • YOU CANNOT PLAY SPORTS DURING YOUR FLOW. This, too, is a false myth due to shame and fear of getting dirty. Obviously, moving dynamically as sports require increases the likelihood getting blood on your clothes, but the choice of whether or not to exercise depends on one’s energy and pain levels, along with other factors unrelated to menstruation. Indeed, many people say they feel better because the endorphins released by the body during exercise relieve pain.
  • IT IS IMPOSSIBLE TO GET PREGNANT DURING MENSTRUATION. The degree of fertility rises and falls throughout the menstrual cycle due to hormonal fluctuation. Although the odds are lower, it is not entirely impossible to get pregnant during menstruation. Remember that sperm can remain in the uterus for a few days and can fertilise the egg at a later time.
  • TAMPONS MAKE PEOPLE LOSE THEIR VIRGINITY. Here we are dealing with the equation virginity=hymen, but in reality virginity is a cultural construct that has nothing to do with the integrity of this inner membrane, which can rupture, for example, through sporting activity. It’s also important to know that the hymen is not even present in all people with a uterus and presents different shapes. Therefore, although it is true that tampons, once inserted into the vagina, could rupture the hymen if present, this does not imply to the loss of virginity: the equation is false. Moreover, placing such a high value on virginal status – which moreover only seems to apply to people with a vagina – is itself problematic and the product of a patriarchal culture.
  • MENSTRUATING PEOPLE WHO LIVE IN CLOSE QUARTERS TEND TO SYNCHRONIZE THEIR MONTHLY BLEEDING. Although there are so many studies in favor of this myth, it has been concluded that the simultaneity between the menstrual flows of several people who work or live together is just a coincidence, partly because the duration of menstruation changes between subjects and from month to month.

These false myths alert us to how rampant misinformation on the topic of menstrual health is. It is a topic that is considered feminine, so inevitably it is largely ignored by the scientific community. This allows popular and ancient beliefs to be still considered reliable. This is precisely why we must talk more and more about menstruation – using this word – and represent it correctly. We must disseminate the correct and necessary information so that every menstruating person can feel free to experience this aspect of their biology, without individual, social and economic discrimination.


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