Le prospettive abolizioniste sul carcere

di Elisa Frilli

C’è una credenza profondamente radicata nella nostra cultura, un assunto talmente interiorizzato che quasi mai viene messo in discussione, e chi osa farlo viene subito bollatə come utopista con la testa tra le nuvole.

La polizia serve a proteggerci.

La prigione serve a prevenire i crimini e a riabilitare chi li compie.

Al riparo di queste credenze inscalfibili, siamo convintɜ che polizia e carcere siano due istituzioni essenziali a far funzionare la società e che un mondo che ne faccia a meno sia semplicemente inconcepibile.

Per questo, quando sentiamo parlare di poliziotti violenti la metafora più utilizzata è quella della mela marcia.

Per questo, quando sentiamo di carceri in condizioni di sovraffollamento e degrado, invochiamo la necessità di una riforma, di maggiori investimenti nel sistema in modo da ottenere condizioni migliori per lɜ detenutɜ.

Esiste però una teoria che rifiuta in toto la possibilità di redimere la polizia e il sistema carcerario: la teoria abolizionista, la cui esponente più nota è senza dubbio Angela Davis. 

L’abolizionismo carcerario è – come il femminismo – al contempo una teoria e una pratica; non rinnega la sua dimensione utopica – si rende cioè conto di proiettarsi in un mondo profondamente diverso e ancora molto lontano dal nostro – e al contempo prevede una costante sperimentazione e inventiva su metodi non punitivi di gestire la violenza e il crimine che possono già avvenire nel nostro mondo, e in certi casi stanno già avvenendo.

Ecco dunque un piccolo excursus sui temi dell’abolizionismo carcerario.

  1. Che cos’è il carcere?

Avevano trovato l’idea di “prigione” in alcuni episodi della Vita di Odo (…) Un insegnante itinerante di storia giunse alla cittadina e spiegò ulteriormente l’argomento, con la riluttanza provata da ogni adulto di onesti sentimenti che debba spiegare ai giovani un’oscenità. Sì, disse, una prigione era il luogo dove uno Stato metteva chi disobbediva alle sue Leggi. Ma perché quelle persone non se ne andavano? Non potevano, le porte erano chiuse a chiave. Chiuse a chiave? Sì, come le porte di un furgone in moto, per non farti cadere giù, sciocco! Ma che cosa facevano, standosene in una stanza tutto il giorno? Niente; non avevano niente da fare. (…) A volte i prigionieri venivano condannati a lavorare. Condannati? Be’, significa che un giudice, una persona che ha ricevuto il potere dalla Legge, ordinava loro di compiere qualche tipo di lavoro fisico. Ordinava loro? E se non volevano farlo? Ebbene, li costringevano; se non lavoravano, venivano battuti. Un brivido percorse l’uditorio, composto di ragazzi di undici, dodici anni: nessuno di loro era mai stato percosso, né aveva mai visto percuotere alcuno, eccetto che in qualche occasione in cui esplodeva improvvisamente la collera, e sempre a livello personale. (…)

“Vuoi dire che molte persone ne picchiavano una sola?”

“Sì”

“E perché gli altri non le fermavano?”

“Le guardie erano armate, i prigionieri no”.

Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta

Siamo così abituatɜ a dare per scontato il fatto che alcune persone abbiano il potere di segregare e usare violenza su altre persone in un modo considerato socialmente legittimo, che è molto difficile capire cos’è davvero una prigione, per non dire immaginare un’alternativa. Per riuscirci dobbiamo compiere uno sforzo d’immaginazione, e metterci nei panni dellɜ piccolɜ odonianɜ del pianeta Anarres di Ursula K. Le Guin, cresciutɜ in una società anarchica dove non esistono né prigioni né polizia.

La pratica di rinchiudere per punire, dal punto di vista storico, è in realtà piuttosto recente. Ѐ vero che nel corso della storia si è sempre imprigionato come misura cautelare, in attesa, cioè, di giudizio; ma, al giudizio di colpevolezza seguivano normalmente una pena corporale, un risarcimento economico o persino la pena capitale. L’idea del penitenziario – in cui la reclusione stessa diventa una pena – si afferma solo nell’Europa del XVIII secolo, per diffondersi poi su larga scala negli Stati Uniti del secolo successivo.

Paradossalmente, la reclusione nasce dall’idea di applicare una pena “più umana” rispetto a quelle fino ad allora in uso – pensata anche per offrire un’occasione di riflessione e ravvedimento di stampo religioso. Ѐ inoltre strettamente legata alla concezione illuministica secondo cui l’uomo (dove il maschile è usato non a caso) ha dei diritti inalienabili: solo concependo la libertà come un diritto individuale inviolabile si può sottrarla a qualcuno per punirlo. Inoltre il penitenziario si diffonde anche in virtù dell’affermazione del capitalismo, che per funzionare aveva bisogno di un esercito di operai disciplinati, che avevano interiorizzato l’idea di essere sottoposti a sorveglianza, per sfruttarli al meglio nella produzione industriale.

A far diffondere su larga scala questa nuova istituzione, secondo Angela Davis, è stato però soprattutto un evento storico fondamentale: l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti.

Le carceri statunitensi, che fino ad allora erano popolate solo da uomini bianchi, si riempiono improvvisamente di persone nere. 

Secondo Davis, questo fatto è tutt’altro che casuale: l’economia capitalista statunitense si fondava sul lavoro schiavile, e quando questa risorsa scomparve si provvide subito a sostituirla con una manodopera a prezzo altrettanto stracciato: quella dei prigionieri condannati ai lavori forzati. Mantenere le persone in precedenza schiavizzate in una condizione di miseria e ignoranza che conduceva inevitabilmente alla criminalità e all’imprigionamento divenne indispensabile per far funzionare la macchina capitalistica, per il solo guadagno delle classi bianche e ricche. Per questo Davis parla del sistema carcerario statunitense come della prosecuzione della schiavitù razziale con altri mezzi – un’idea scioccante, ma che diventa molto più plausibile se si pensa alla composizione etnica della popolazione detenuta, che ancora oggi negli Usa è costituita per la grande maggioranza da persone razzializzate. Per fare qualche esempio: in Virginia, Stato ex schiavile, le persone nere rappresentano circa il 19% della popolazione totale, ma il 54% della popolazione carceraria​; in Wisconsin, costituiscono il 6% della popolazione ma il 42% della popolazione carceraria​; in Alaska, lɜ nativɜ sono il 14% della popolazione ma il 40% di quella carceraria.

Ecco quindi che, alla fine dell’Ottocento, un’istituzione nata un secolo prima dalle idee illuministiche e per le necessità del capitalismo, mostra per la prima volta la sua vera faccia. 

La prigione non è affatto il luogo dove chi sbaglia viene punito e rieducato; è l’istituzione di cui ha bisogno il capitalismo per funzionare, sia in termini di controllo dei corpi e disciplinamento sociale, sia – negli Stati Uniti – in termini di bacino di manodopera a basso costo.

Se lɜ criminalɜ non ci sono, dunque, la società provvederà prontamente a crearlɜ.

  1. Come si vive in carcere?

Il sistema ha bisogno di sangue, spiegava. «Costruisci un mucchio di prigioni ad alta tecnologia, assumi un casino di guardie, ed ecco, delle prigioni nuove di zecca, modernissime, non possono mica starsene vuote, giusto? È come il cazzo di Uomo dei sogni. Quella merda l’hanno costruita, e così qualche coglione dovrà pure venirci. E tu e io sappiamo che toccherà a te e a me. Che fortunati».

James Hannahan, A nessuno è fregato un cazzo di cosa è successo a Carlotta

Il complesso carcerario-industriale statunitense

“Complesso carcerario industriale” è un’espressione coniata dallɜ attivistɜ abolizionistɜ per descrivere il sistema statunitense di gestione dellɜ detenutɜ. Ne fanno parte sia le carceri di vario ordine (comunali, statali, federali, militari) che i centri di detenzione per immigratɜ. Gli USA sono il paese al mondo con più persone detenute, in termini sia assoluti che percentuali. Il motivo per cui si parla di complesso industriale è che le carceri diventano luoghi funzionali al perseguimento del profitto, attraverso varie strategie di lucro:

  • la manodopera a bassissimo costo e non sindacalizzata dellɜ detenutɜ viene sfruttata dalle corporation che lɜ impiegano;
  • le società private prendono in appalto le prigioni con enormi margini di profitto, drenando così risorse pubbliche che potrebbero essere impiegate per il welfare e la prevenzione del crimine;
  • lɜ detenutɜ stessɜ diventano consumatorɜ di prodotti e servizi delle società private.

Il fatto che le carceri statunitensi abbiano come scopo principale quello di essere fonti di profitto spiega il boom della costruzione di strutture detentive in periodi in cui, paradossalmente, la criminalità era in calo, come negli anni Novanta. Mentre la propaganda politica invoca pene più severe come unica soluzione al crimine, e l’opinione pubblica si concentra unicamente sulla condotta criminale individuale, si perde completamente di vista il fatto che sono le necessità del complesso carcerario industriale a dettare l’agenda dei governi nella direzione di generare delinquenza, e non viceversa. A orientare le politiche negli Stati Uniti sono quindi in buona parte gli interessi di un sistema che prospera nei processi di distruzione sociale, di impoverimento e di mancanza di istruzione.

Inoltre, il sistema carcerario industriale si nutre e alimenta il razzismo sistemico del Paese e le sue profonde diseguaglianze sociali. Essere persone razzializzate, povere, queer, trans e/o appartenenti ad altre minoranze oppresse è un fattore che contribuisce all’imprigionamento molto più del fatto di aver commesso un crimine.

Il caso italiano

Gli Stati Uniti stanno lentamente esportando il loro modello di carcere al resto del mondo; il sistema delle carceri di massima sicurezza, ad esempio, è stato già parzialmente ripreso e applicato in Turchia, dove lɜ prigionierɜ politicɜ curdɜ da tempo fanno scioperi della fame per questo motivo.

In Italia per fortuna non abbiamo, almeno al momento, un processo analogo; il sistema penale resta interamente pubblico – ma non per questo le cose ci vanno meglio. 

Nel nostro paese le persone attualmente detenute sono circa cinquantamila e le nostre carceri sono un esempio lampante di degrado e di fallimento di ogni pretesa riabilitativa.

Tra lɜ detenutɜ italianɜ la frequenza dei suicidi è 16-17 volte maggiore che nella popolazione libera; secondo i dati forniti da Antigone nell’ultimo rapporto annuale sulla detenzione, si sono verificati in media 18,1 atti di autolesionismo e 2,4 tentati suicidi ogni 100 detenuti.

Le nostre carceri sono anche note per il loro intollerabile sovraffollamento; in circa un terzo degli istituti lɜ detenutɜ dispongono di meno di tre metri quadri calpestabili a testa. Alcuni istituti hanno celle senza riscaldamento, quasi la metà senza acqua calda.

Le condizioni di degrado e sovraffollamento delle carceri italiane ci sono fruttate varie sanzioni da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’Articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. Per tollerare queste condizioni intollerabili, tra lɜ detenutɜ viene fatto un uso diffuso di psicofarmaci, incentivato dallɜ responsabili anche come strumento di controllo e disciplinamento.

L’Italia è inoltre tristemente famosa per la sua storia di abusi sullɜ detenutɜ dal parte del personale penitenziario. Tra i più eclatanti casi c’è quello risalente ad aprile 2020, la “mattanza della settimana santa” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. In seguito a una protesta dei detenuti, decine di loro furono torturati dalla polizia penitenziaria – sebbene i casi in cui questo ha portato a una denuncia siano stati molti meno, a causa di atti intimidatori degli agenti.

D’altra parte, è solo dal 2017 che in Italia è stato introdotto il reato di tortura, dopo quasi trent’anni di scontri politici in seguito alla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, fatta dall’Italia nel 1989. Da allora ci sono stati i primi procedimenti a carico della polizia penitenziaria e le prime condanne, ma nel nostro paese – come ben sappiamo – c’è una generale avversione a confrontarsi con l’operato delle forze di polizia. 

Ciò che non tuttɜ sanno è che la Costituzione italiana non parla mai di carcere né di pena detentiva, dice solo che le pene non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Lɜ costituenti vollero lasciare libertà di interpretazione allɜ legislatorɜ. Per questo, l’abolizione del carcere in Italia sarebbe possibile senza nemmeno toccare la Costituzione.

  1. Il carcere previene i crimini e rieduca chi li perpetra?

Per lɜ sostenitorɜ dell’abolizionismo carcerario, la risposta a questa domanda è NO. Il carcere ha una funzione solo punitiva, non riabilitativa. Questa risposta si basa su dati fattuali, quelli relativi ai tassi di recidiva.

In Italia il tasso di recidiva dellɜ ex-carceratɜ entro sette anni dalla scarcerazione è del 70%; negli Stati Uniti, del 68% entro tre anni e dell’83% dopo nove anni. In entrambi i paesi, le violazioni dei diritti umani dellɜ carceratɜ sono all’ordine del giorno, mentre i programmi di riabilitazione e reinserimento sono assenti o non funzionano.

Non esiste inoltre alcuna prova che l’esistenza di carcere e polizia funzionino come deterrenti per le azioni criminali, né come quantità, né come intensità, e che rendano la società più sicura. È invece fuori dubbio che a questo scopo funzionino gli investimenti nel welfare, nell’educazione, la riduzione delle diseguaglianze sociali ecc.

  1. Femminismo, violenza di genere e abolizionismo

Gli argomenti più spesso impiegati per tenere lontanɜ lɜ femministɜ dalle prospettive abolizioniste su carcere e polizia sono l’esistenza e la pervasività della violenza di genere – la necessità, di conseguenza, di punire i perpetratori e proteggere lɜ survivor.

Nel saggio Abolizionismo. Femminismo. Adesso, le quattro autrici sostengono invece la tesi che il femminismo è inscindibile da una prospettiva abolizionista. Secondo loro, la violenza della polizia e del carcere ha le stesse identiche radici della violenza di genere: ovvero, il patriarcato e il capitalismo. Per questo, ogni tentativo di usare le istituzioni punitive per diminuire la violenza di genere è destinato a fallire. Ecco alcuni dei loro argomenti:

  • Il sistema giudiziario e penale è intrinsecamente fallimentare nell’assicurare giustizia allɜ survivor di violenza di genere; lo dimostra il fatto che pochɜ survivor vi si rivolgano, e che gran parte di quellɜ che lo fanno vengano ri-traumatizzatɜ dal sistema.
  • La polizia è addestrata a usare la forza, non a prevenire la violenza né a risolverne le cause. È paradossale che ci aspettiamo che a risolvere il problema della violenza di genere sia proprio il gruppo demografico, secondo le statistiche, più ad alto rischio di usare la violenza sulle partner: ovvero, gli stessi agenti di polizia.
  • Il fatto di confinare in prigione un abuser per un periodo di tempo limitato non gli impedisce di riprendere i comportamenti violenti verso la partner non appena è tornato in libertà. Un fatto drammaticamente frequente e che dimostra l’assenza di ogni funzione riabilitativa.
  • Dal punto di vista del femminismo intersezionale, se oltre che ai diritti delle donne si tiene cioè a quelli delle minoranze oppresse, non si può fare a meno di notare quanto le strutture carcerarie e la polizia colpiscano con un’incidenza molto maggiore le persone povere, razzializzate e queer.

La conclusione delle autrici è che, essendo la violenza di genere la forma più diffusa e trasversale di violenza, interpretarla in termini individualistici – cioè focalizzarsi sui singoli perpetratori senza vederne le radici sistemiche – non ha alcun senso. La logica conseguenza di individualizzare la violenza è investire nel sistema penale. Investire nelle prigioni e nella polizia significa credere che debellare la violenza di genere dalla società sia impossibile. Credere nell’abolizionismo significa essere ottimistɜ che non sia così, e pensare che una trasformazione sociale sia non solo necessaria ma anche possibile.

Se inoltre possiamo ammettere che la polizia possa – in certi casi – fornire protezione ad alcune donne bianche e benestanti, da femministɜ intersezionali non possiamo non riconoscere che questa protezione è del tutto assente nel caso di donne e persone trans e non binarie bipoc, che sono anzi messe continuamente in pericolo dalla polizia.

  1. Le carceri si possono riformare?

Il movimento abolizionista si oppone ai progetti di riforma dei sistemi carcerari in un’ottica più efficiente e più umana; le riforme non fanno altro che rafforzare l’idea che l’unica risposta possibile alla violenza sia l’incarcerazione – ovvero, l’idea fallace di debellare la violenza interpersonale e di genere con la violenza istituzionale. Per questo, secondo lɜ abolizionistɜ occorre diffidare da chi chiede maggiori investimenti nelle carceri. L’unica vera soluzione è svuotarle.

Una parte del movimento abolizionista si oppone inoltre anche alle misure alternative alla carcerazione, come il monitoraggio elettronico. Queste misure non eliminano le gabbie, le rendono solo meno evidenti, portando i meccanismi di sorveglianza e punizione nelle nostre stesse case, trasformandole in prigioni, e trasformando al contempo le donne – che normalmente assolvono ai ruoli di cura – in carceriere.

  1. Quali soluzioni?

Constatato il fallimento del sistema penale, per lɜ abolizionistɜ l’unico vero modo per creare una società sicura è risolvere alla radice i problemi che generano la criminalità e la violenza, eliminando la necessità stessa di una punizione e rendendo le carceri obsolete

Questo significa, nella pratica, garantire a tuttɜ il diritto alla casa, allargare l’accesso all’istruzione, garantire un accesso universale e gratuito alla sanità, eliminare la povertà estrema e ridurre le diseguaglianze sociali, investire in politiche contro la violenza di genere, il razzismo e così via.

L’idea è, insomma, che la sicurezza si ottenga investendo nelle comunità e non nelle carceri.

Lɜ abolizionistɜ si rendono tuttavia conto che questo programma di prevenzione della criminalità e della violenza può manifestare i suoi effetti solo a lungo termine. Nel frattempo, continueremo a vivere in un mondo in cui la violenza è all’ordine del giorno. Occorre perciò tenere insieme il breve e il lungo termine: la necessità di far fronte qui e ora ai bisogni immediati di giustizia e sicurezza di chi ha subito il danno; e l’idea di smantellare in un’ottica preventiva, a lungo termine, i meccanismi oppressivi (suprematismo bianco, povertà, misoginia…), che sono le vere cause della violenza.

La risposta abolizionista al breve termine è quella di sperimentare nuove forme di riparazione del danno non carcerarie e non punitive, assicurando così giustizia alle vittime,  e studiare progetti di crescita, consapevolezza e reinserimento per lɜ perpetratorɜ, centrati sul concetto di accountability. Si apre così il campo della cosiddetta giustizia trasformativa.

  1. Cos’è la giustizia trasformativa

Nel suo libro La trama alternativa, Giusi Palomba racconta un’esperienza personale di gestione della violenza di genere attraverso una via non punitiva, che non è passata dallo Stato. Quando scopre che un suo carissimo amico, militante transfemminista, ha stuprato una ragazza, l’autrice vede il suo intero mondo crollare; la survivor in questione, però, decide di non denunciare l’accaduto, ma di percorrere una strada alternativa con il supporto della comunità di cui sia lei che lo stupratore fanno parte. La comunità (in questo caso, l’ambiente militante transfemminista catalano) attiva così un lungo processo di riparazione del danno, che si fonda sulla presa di responsabilità da parte del perpetratore, sulla sua trasformazione come persona, e sul restituire agency alla survivor, ossia sul metterla nelle condizioni di diventare protagonista attiva della sua storia e di scriverne il finale. La giustizia diventa così un problema collettivo, l’obiettivo di un’intera comunità che si interroga su come far sì che un simile strappo venga ricucito e che non si ripeta più – un processo di trasformazione complesso e che non trova mai una vera e propria conclusione. 

Quello raccontato da Palomba è un esempio concreto di giustizia trasformativa – una concezione nuova, in via di sviluppo, oggetto di costanti sperimentazioni e riflessioni. Per il suo carattere ancora sperimentale e molto variabile di contesto in contesto, è difficile descriverne con esattezza il funzionamento. Non esistono norme o pratiche universali; ciascuna comunità può declinare la giustizia trasformativa secondo le sue esigenze e i suoi valori. Le sperimentazioni più conosciute sono quelle portate avanti da alcune comunità nere della working class statunitense (di cui fanno parte Angela Davis e le sue compagne), in particolare dalle donne e dalle persone queer e trans: da realtà, insomma, la cui sfiducia nella capacità dello Stato di garantire giustizia affonda le sue radici in una quotidiana esperienza di oppressione.

Pur nella varietà degli esperimenti di giustizia trasformativa, è possibile identificare alcune idee fondative comuni:

  • il fatto che il danno, l’abuso e il crimine siano responsabilità collettive e non individuali, che richiedono quindi soluzioni sistemiche e una messa in discussione dell’intera comunità. La violenza di genere, ad esempio, non è considerata una responsabilità del solo stupratore, bensì la conseguenza di una diffusa cultura dello stupro (rappresentata come una piramide che ha alla base comportamenti apparentemente non troppo dannosi, come le battute sessiste)
  • la necessità di restituire agency alla persona che ha subito il danno, di non relegarla cioè al ruolo passivo e immobile di vittima, ma di renderla protagonista del suo percorso di guarigione, empowerment e autodeterminazione;
  • la speranza, l’ottimismo e la fiducia che, grazie al sostegno della comunità, chi ha attuato la violenza possa cambiare. Il cambiamento deve fondarsi sulla presa di responsabilità (accountability) del fatto che si è danneggiato un altro essere umano, e sulla capacità di prendere l’iniziativa per far sì che tale danno non si ripeta in futuro.

La giustizia trasformativa non offre scorciatoie, soluzioni facili, pratiche universali. Si fonda sulla convinzione che gli esseri umani possano cambiare e migliorare, e che i processi che attuiamo per trasformarci non siano solo mezzi ma fini in sé. Il processo conta più del risultato, e il risultato non è mai un punto d’arrivo definitivo. 

Si fonda, in ultima analisi, sulla capacità rivoluzionaria di non arrendersi all’esistente, ma di sognare un mondo in cui non ci siano più povertà, sessismo, razzismo, omobitransfobia… un mondo senza più oppressɜ né oppressorɜ; un mondo che non ha bisogno di gabbie.

Bibliografia e sitografia

Angela Davis, Aboliamo le prigioni?, Minimum Fax 2022 (Are prisons obsolete?, Seven Stories Press 2003)

Angela Davis, Gina Dent, Erica R. Meiners, Beth E. Dichie, Abolizionismo. Femminismo. Adesso, Edizioni Alegre 2023 (Abolition. Feminism. Now, Haymarket Books 2022)

Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, Abolire il carcere, Chiarelettere 2022

Giusi Palomba, La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere, Minimum Fax 2023

Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, Mondadori 2019 (The Dispossesed: an Ambiguous Utopia, Harper Voyager 1994)

James Hannahan, A nessuno è fregato un cazzo di cosa è successo a Carlotta, Edizioni Clichy 2024 (Didn’t Nobody Give a Shit What Happened to Carlotta, Europa Editions 2022)

Traduzione ENG

A world without prisons

Abolitionist perspectives on the prison system

There is a deeply ingrained belief in our culture, an assumption so internalised that it is rarely questioned. Those who do dare to question it are immediately branded as head-in-the-clouds utopians.

The police serve to protect us.

Prisons fulfill the function of preventing crimes and rehabilitating those who commit them.

These beliefs are so unshakable that we are certain of the essential roles the police and prisons play in society. In our eyes, they are two key institutions in making society work: a world without them is simply inconceivable.

That is why, when we hear about violent police officers, the most frequently used metaphor is that of the “bad apple”.

That is why, when we hear about overcrowded prisons in degrading conditions, we invoke the need for reforms, for more investments in the system to achieve better conditions for detainees.

However, there is a theory that outright rejects the possibility of redeeming the police and the prison system: the abolitionist theory, whose best-known exponent is undoubtedly Angela Davis. 

Prison abolitionism is – like feminism – both a theory and a practice. It does not disavow its utopian dimension – that is, it knows that it projects itself into a perspective world that is profoundly different from our own. At the same time, abolitionism provides for constant experimentation and inventiveness concerning non-punitive methods of dealing with violence and crime. In fact, the conditions are present for many of them to start being implemented, and in some cases, they are already taking place.

Let’s then start our small journey on the theme of prison abolition.

  1. What is a prison?

They had picked up the idea of “prisons” from episodes in the Life of Odo, (…) And when a circuit history teacher came through the town he expounded the subject, with the reluctance of a decent adult forced to explain an obscenity to children. Yes, he said, a prison was a place where a State put people who disobeyed its Laws. But why didn’t they just leave the place? They couldn’t leave, the doors were locked. Locked? Like the doors on a moving truck, so you don’t fall out, stupid! But what did they do inside one room all the time?  Nothing. There was nothing to do. (…) Sometimes prisoners were sentenced to work. Sentenced? Well, that means a judge, a person given power by the Law, ordered them to do some kind of physical labor. Ordered them? What if they didn’t want to do it? Well, they were forced to do it; if they didn’t work, they were beaten. A thrill of tension went through the children listening, eleven- and twelve-year-olds, none of whom had ever been struck, or seen any person struck, except in immediate personal anger.

(…) “You mean, a lot of people would beat up one person?”

“Yes.”

“Why didn’t the others stop them?”

“The guards had weapons. The prisoners did not”.
Ursula K. Le Guin, The Dispossessed: an Ambiguous Utopia

We are so used to taking for granted the fact that some people have the power to segregate and use violence on other people in a way that is considered completely legitimate, that it is very difficult to understand what a prison really is, let alone imagine an alternative. To do so, we have to make an effort of imagination and put ourselves in the shoes of the young Odonians on Ursula K. Le Guin’s planet Anarres, who grew up in an anarchic society where there are no prisons nor police.

Imprisonment with the intent to punish is actually a quite recent practice, from a historical perspective. Throughout time, people have always been imprisoned as a precautionary measure, that is, pending judgment. However, the judgment was normally followed by corporal punishment, economic compensation, or even capital punishment. The idea of the penitentiary – where imprisonment itself becomes a punishment – was only established in 18th-century Europe. From there, in the following century, it would spread widely in the United States. 

Ironically, imprisonment arose from the idea of a “more humane” punishment than those hitherto in use – inspired also by the religious idea of providing an opportunity for reflection and repentance. Imprisonment is also closely linked to the Enlightenment-era conception that man (here the masculine is not used by chance) has inalienable rights. Only by conceiving freedom as an inviolable individual right can it be taken away as a form of punishment. The penitentiary system, critically, also spread due to the rise of capitalism. The latter needed an army of disciplined workers to function, workers who had internalised the idea of being surveilled and could therefore be exploited to the fullest for industrial production.

However, according to Angela Davis, what truly made this new institution take off was primarily a key historical event: the abolition of slavery in the United States.

U.S. prisons, which until then had been populated only by white men, suddenly filled with Black people.

This is far from coincidental, Davis states: the U.S. capitalist economy was based on slave labor, and when this resource disappeared, it was immediately replaced with a similarly cheap labor force: that of prisoners sentenced to forced labor. Keeping previously enslaved people in conditions of misery and ignorance that inevitably led to crime and imprisonment became indispensable in keeping the capitalist machine running. All this was for the sole gain of the white, wealthy classes. This is why Davis speaks of the U.S. prison system as the continuation of racial slavery by simply other means. It might be a shocking concept, but it certainly appears much more plausible when one considers the ethnic composition of the incarcerated population, which even today in the U.S. is made up of the vast majority of racialised people. To give a few examples: in Virginia, a former slave state, Black people make up about 19% of the total population but 54% of the prison population; in Wisconsin, they make up 6% of the population but 42% of the prison population; in Alaska, Indigenous people represent 14% of the population but 40% of the prison population.

That is how, then, at the end of the nineteenth century, an institution born just a century earlier out of Enlightenment values to fulfill the needs of capitalism shows its true face for the first time. 

Prison is by no means a place where wrongdoers are punished and re-educated; it is rather an institution that capitalism needs in order to function, both in terms of body control and social disciplining, and – at least in the United States – in terms of providing cheap labor.

If there aren’t enough criminals, therefore, society will readily provide for them.

  1. What is life like in prison?

The system needs blood, he explained. “You build a whole buncha high-tech prisons, hire a shitload of COs, and it’s like, can’t no brand-new, state-of-the-art jails be sitting round empty, right? It’s like Field of Motherfucking Dreams, yo. They built that shit, so somebody ass gotta come. And you and me know that’s gon be you and me. Lucky us”

James Hannahan, Didn’t Nobody Give a Shit What Happened to Carlotta

The U.S. prison-industrial complex

“Prison-industrial complex” is an expression coined by abolitionist activists to describe the U.S. system of detainee management. This includes prisons of various orders (municipal, state, federal, military) as well as immigrant detention centers. The U.S. is the first country in the world by detained population, both in percentage and absolute terms. The reason we talk about an industrial complex is that prisons become places where the main function is the pursuit of profit. This is achieved through various profit-making strategies:

  • Low-cost, non-unionized labor by detainees who are exploited by the corporations that employ them;
  • Private companies who buy out prisons with huge profit margins, thus draining public resources that could be used in welfare and crime prevention;
  • Detainees themselves become consumers of those same private corporations’ products and services.

The fact that U.S. prisons are primarily intended to be sources of profit explains the boom in the construction of prison facilities at times when, counterintuitively, crime was declining, such as in the 1990s. What happens is that political propaganda calls for harsher punishments as the only solution to crime, and public opinion focuses solely on individual criminal conduct. This way, a key aspect is obscured: it is the needs of the prison-industrial complex that dictate governments’ agendas in the direction of generating delinquency, not vice versa. Thus, what guides U.S. policies are the interests of a system that thrives in social destruction, impoverishment and lack of education.

Moreover, the prison industrial system feeds on and fuels the country’s systemic racism and its deep social inequalities. Being racialised, poor, queer, trans, and/or belonging to other oppressed minorities is a major contributing factor to imprisonment, far more than committing a crime ever could be.

In Italy

The U.S. is slowly exporting its prison model worldwide. The maximum-security prison system, for example, has already been partially adopted in Turkey, where Kurdish political prisoners have long been on hunger strikes for this very reason.

In Italy, fortunately, we have not seen – at least for now – a similar process. The penal system remains entirely public – but that does not make things any better. 

There are about fifty thousand people currently incarcerated in our country, and our prisons are glaring examples of decay and failure of all rehabilitative pretensions.

Among Italian inmates, the frequency of suicide is 16-17 times higher than in the free population. According to data provided by Antigone in the latest annual report on detention, an average of 18.1 acts of self-harm and 2.4 attempted suicides occurred for every 100 inmates.

Our prisons are also notorious for their intolerable overcrowding. In about a third of institutions, detainees have less than three walkable square meters per head. Some institutions have cells without heating, nearly half of them without hot water.

The miserable and overcrowded conditions in Italian prisons have earned us several sanctions from the European Court of Human Rights for violating Article 3 of the European Convention on Human Rights, which prohibits torture and inhuman or sub-standard treatment. In order to endure these intolerable conditions, detainees make widespread use of psychotropic drugs, also encouraged by the authorities in charge as a means of control and discipline.

Italy is also infamous for its history of abuse against detainees by prison staff. Among the most egregious cases is one dating back to April 2020, the “Holy Week Slaughter” (Mattanza della settimana santa, in Italian) at the Santa Maria Capua Vetere penitentiary. Following a protest by inmates, dozens of them were tortured by prison police – although very few cases led to legal charges, due to intimidation by the officers.

On the other hand, it was only in 2017 that the crime of torture was introduced in Italy, after nearly 30 years of political confrontations following Italy’s ratification of the United Nations Convention against Torture in 1989. Since then we have seen the first cases of prosecutions of prison police as well as first convictions. Unfortunately, as we all know, in our country there is a pronounced aversion to confronting police work.

What not everybody knows is that the Italian Constitution never mentions prison or imprisonment. It only says that punishment must not be contrary to all sense of humanity and must aim at the re-education of the convicted. The constituents wanted to leave freedom of interpretation to legislators. Therefore, prison abolition in Italy would be possible without even changing the Constitution.

  1. Does prison prevent crime and re-educate the perpetrators?

For all supporters of prison abolitionism, the answer to this question is a resounding NO. Prison merely fulfills a punitive function, not a rehabilitative one. Our answer is based on factual data regarding recidivism rates.

In Italy, the rate of recidivism for ex-prisoners within seven years of release is 70%. In the United States, it is 68% within three years and 83% after nine years. In both countries, prisoner rights violations are commonplace, while rehabilitation and reintegration programs are either absent or do not work.

There is also no evidence that the existence of prisons and police work as deterrents to criminal actions, either in quantity or intensity, nor that they make society safer. On the other hand, there is no doubt that investments in welfare, education, reduction of social inequalities, etc. all work towards this goal.

  1. Feminism, gendered violence and abolitionism

The most frequently cited arguments when trying to keep feminists away from abolitionist perspectives on prisons and police forces are the existence and pervasiveness of gender-based violence, thus the need to punish perpetrators and protect survivors.

In the essay Abolitionism. Feminism. Now, the four authors argue instead that feminism is inseparable from an abolitionist perspective. According to them, police and prison violence share their roots with gendered violence, namely, patriarchy and capitalism. Therefore, all attempts to use punitive institutions to discourage gendered violence are doomed to fail. Here are some of the authors’ arguments:

  • The criminal justice system is inherently unsuccessful in providing justice to survivors of gender-based violence; this is evidenced by the fact that very few survivors turn to it. Additionally, most of those who do are re-traumatised by the system.
  • The police are trained to use force, not to prevent violence or solve the root of the issue. It is paradoxical that we expect the very demographic who is most likely, according to statistics, to be violent against their partners to solve the problem of gender-based violence.
  • Confining an abuser to prison for a limited period does not prevent them from resuming violent behaviour towards their partner as soon as they are released. This is a tragically frequent occurrence and demonstrates the lack of any rehabilitative function at all.
  • From the point of view of intersectional feminism, if one cares not only about women’s rights but instead of those of all oppressed minorities, we cannot help but notice how incarceration and unreasonable use of police force affect poor, racialised and queer people much more.

The authors conclude that, since gender-based violence is the most widespread and transversal form of violence, interpreting it in individualistic terms makes no sense. But that is exactly what happens when we look at individual perpetrators without looking at the systemic roots. Once violence is individualised, logic will of course suggest investing in the penal system. To invest in prisons and the police is then to believe that eradicating gender-based violence from society is impossible. To believe in abolitionism is to be optimistic, and to think that a social transformation is not only necessary but also possible.

If, moreover, we can concede that the police can – in limited cases – provide protection to (some) white, affluent, cis women, as intersectional feminists we cannot fail to recognise that this protection is entirely lacking in the case of trans and non-binary BIPOC women. These women are instead continually endangered by the police.

  1. Can prisons be reformed?

The abolitionist movement firmly opposes plans to reform prison systems towards more efficient and humane ways. Reforms only reinforce the idea that the only possible answer to violence is incarceration – that is, the fallacious idea that eradicating gender-based and interpersonal violence with state-sanctioned violence is possible. Therefore, according to abolitionists, one must be wary of those who call for more investment in prisons. The only real solution is to dismantle them.

Part of the abolitionist movement also opposes alternative measures to imprisonment, such as electronic monitoring. These measures do not eliminate the cages, they only make them less visible, bringing the mechanisms of surveillance and punishment into our own homes, and turning them into prisons. At the same time, these methods turn women – who generally fulfill caretaking roles – into prison guards.

  1. What are the solutions?

Having established the failure of the penal system, for abolitionists, the only real solution to creating a safe society is to solve the root causes of crime and violence, thus eliminating the very need for punishment and making prisons obsolete

This means, in practice, guaranteeing everyone the right to housing, expanding access to education, ensuring universal and free access to healthcare, eliminating extreme poverty and reducing social inequalities, investing in policies against gender violence, racism, and so on.

The idea is, in short, that security is achieved by investing in communities and not in prisons.

Nonetheless, abolitionists realize that crime and violence prevention programmes can only bear fruits in the long term. In the meantime, we will continue to live in a world where violence is pervasive. It is necessary to keep an eye on both the short and the long term. We need to address the immediate justice and security needs of those who have been harmed as well as maintain the objective of dismantling and preventing oppressive mechanisms (white supremacy, poverty, misogyny…), which are the real causes of violence.

The abolitionist response in the short term is to experiment with new, non-carceral, non-punitive forms of damage reparation, thus ensuring justice for victims, and to focus on growth, awareness, and reintegration projects for perpetrators, centred around the concept of accountability. This opens up the field of so-called transformative justice.

  1. What is transformative justice?

In her book The Alternative Plot, Giusi Palomba recounts her personal experience of dealing with gender-based violence through a non-punitive, non-state route. When she discovers that a close friend of hers, a transfeminist militant, has raped a girl, the author sees her entire world crumble. The survivor in question, however, decides not to denounce the incident, but to pursue an alternative path with the support of the community to which both she and the rapist belong. The community (in this case, the militant trans-feminist Catalan milieu) thus undertakes a long journey to repair the damage. The process consists of the perpetrator taking responsibility, much emphasis is put on his transformation as a person and on restoring the survivor’s agency. In practice, that means enabling her to become an active protagonist in her own story and to write its ending. Justice thus becomes a collective problem, the goal of an entire community that questions itself on how to ensure that such a tear is repaired and that such a thing never happens again. It is a complex process of transformation that never finds a conclusion.

What Palomba recounts is a concrete example of transformative justice – a developing concept at the centre-stage of constant experimentation and reflection. Because it is still experimental and highly flexible depending on context, it is difficult to describe precisely how it works. There are no standardised norms or practices; each community can decline transformative justice according to its needs and values. The best-known experiments are those carried out by certain Black communities of the US working class (of which Angela Davis and her comrades are a part), in particular by women and queer and trans people. In other words, by communities whose mistrust in the state’s ability to guarantee justice is rooted in their daily encounters with oppression.

Despite the variety of transformative justice experiments, it is possible to identify some fundamental pillars:

  • The fact that harm, abuse and crime are collective and not individual responsibilities, thus requiring systemic solutions and a questioning of the entire community. Gender-based violence, for instance, is not seen as the responsibility of the rapist alone, but rather as the consequence of widespread rape culture. Such a culture is represented as a pyramid with behaviour that appears not to be too harmful, such as sexist jokes, at its base);
  • The need to restore agency to the person who has been wronged. That means not relegating them to the passive and immobile role of victim, but instead making them a protagonist in their own journey of healing, empowerment and self-determination;
  • Hope, optimism and confidence that, with the support of the community, the perpetrator of violence can change. Change must consist in taking responsibility for the fact that one has harmed another human being, and in ensuring that such harm is not repeated in the future.

Transformative justice does not offer shortcuts, easy solutions, or standardised practices. It is based on the belief that human beings can change and improve, and that the processes we implement to transform ourselves are not just means but ends in themselves. The process matters more than the result, and the result is never a definitive end. 

It is ultimately based on the revolutionary ability not to surrender to what we know, but to dream of a world in which there is no more poverty, sexism, racism, homobitransphobia… a world with no oppressed nor oppressors; a world that doesn’t need cages.


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