Disclaimer: Il termine “colorato” e “colour*d”, sono termini che sono stati usati nei confronti di chi ha creato la rubrica, Italiana nera di origine Afro-statunitense e Afro-Latina Peruviana che ha deciso di riappropriarsi dei termini usati, la quale violenza non sono da meno rispetto agli slurs spesso usati. La volontà di riappropriarsi di questi termini non vuole tuttavia in nessun modo triggerare le persone che leggono, motivo per cui teniamo a specificare il perchè dell’uso delle parole scritte.
Rompere il ciclo non è semplice, per nessun*, e nessuna esperienza è più importante di un’altra, questo è necessario premetterlo.
Ma.
Tuttavia.
Anche se.
Devo dirlo, è frustrante come la società ci chieda di affrontare le nostre paure, i nostri traumi, le nostre sensazioni, come se fossimo persone bianche – quando noi – persone bianche non siamo.
Ci sono sensazioni ed emozioni che una persona non appartenente ad una minoranza non capirà mai, ed è giustissimo. Tuttavia, dover affrontare le nostre avversità come persone bianche, e doverci sentire quasi grat* della possibilità di affrontarle in questo modo poiché nat* e/o cresciut* in una società prevalentemente bianca è frustrante ed un grosso ostacolo in aggiunta nel nostro cammino per rompere il ciclo, spezzare la catena, ed essere finalmente noi stess* e liber*.
Probabilmente alcune persone non BIPOC non avranno capito di cosa sto parlando, altre sì, e va benissimo, l’importante è che leggiate.
Spezzare la catena, che sia di abusi, di comportamenti non safe, di problematicità in generale tramandate di generazione in generazione non è facile, ci siamo tutt* fino a qua, no?
Tuttavia per noi BIPOC, in un mondo in cui la supremazia bianca è la forma più influente di razzismo nel mondo, è ancora più complesso.
Nonostante siamo nat* e cresciut* in Paesi prevalentemente bianch*, con una cultura e modo di pensare “bianco”, noi non lo siamo, la nostra famiglia non lo è, la nostra cultura non lo è, o nel caso in cui siamo “mixed culture” non lo è al 100%.
In molte comunità, in molte culture, esprimere le proprie emozioni non è un’opzione: le persone che ti crescono non necessariamente ti mostrano affetto nella maniera in cui la società bianca occidentale ci ha insegnato, ma tramite gesti che possono sembrare “duri”, quello che comunemente chiamiamo “tough love”.
In molte comunità, in molte culture, andare dallo psicologo è un tabù e un simbolo di debolezza: bisogna resistere e decidere di porre fine alle tue sofferenze è una debolezza che in alcune comunità, alcune culture, è da considerare vergognoso.
Avete mai sentito dire: “quella è una cosa da bianchi” oppure “quelle sono stupidaggini che fanno solo le persone bianche”, mentre la gente ride guardando i meme sui social, con captions e commenti che dicono “this is some white dumb shit”, tuttavia quel white dumb shit è privilegio che nè noi nè i nostri famigliari possono “ottenere” se non con durissimi sacrifici.
Una persona che ha bisogno di aiuto va dallo psicologo, se una persona è visibilmente disabile viene aiutata dalle istituzioni, anche solo in maniera parziale, tenendo conto delle difficoltà quotidiane riconosciute ma l’aiuto dato è comunque sempre insufficiente. Tuttavia tutti questi sono privilegi, lussi che molte persone BIPOC non si possono permettere.
Girare il mondo per scoprire noi stess* è considerato “una cosa da bianchi” perchè noi BIPOC non abbiamo il privilegio di trovare subito lavoro (o tornare a lavoro) dopo un anno sabbatico, nessun* ci cerca o ci aspetta, specie se abbiamo un lavoro di un certo livello, anche se siamo nat* e/o cresciut* nel Paese in cui sentiamo e sappiamo di appartenere, aventi la cittadinanza o meno, sappiamo di non avere lo stesso privilegio.
Non è solo andare dallo psicologo e parlare, non è solo essere vulnerabil* ed apert*, è molto di più.
Le persone non BIPOC potrebbero pensare che queste cose sono considerate “una cosa da bianchi” perchè noi BIPOC spesso non abbiamo la possibilità di pagare un supporto psicologico, ma non è solo questo.
Alcune persone BIPOC non hanno una famiglia culturalmente propensa alla vulnerabilità mentale, all’identificazione personale, all’esplorazione della propria sessualità e tanto altro.
Non è solo una questione finanziaria.
“Ereditare” l’azienda di famiglia è sicuramente un privilegio, ma se per le persone bianche può essere una scelta ereditare il lavoro di chi ti ha cresciuto, per le persone BIPOC è un “dovere” che sai ricadrà su di te senza che nessuno abbia chiesto la tua opinione, anzi, quell’azienda rappresenta la gioventù di chi ti ha cresciuto, i sacrifici, le lacrime, il sudore e il sangue di chi ti ha permesso di essere qui; a volte dire “no” non è facile.
Una persona non BIPOC potrebbe dire: “ Pure i miei genitori hanno fatto i sacrifici” oppure “Anche i miei genitori non avevano nulla ma si sono arricchiti, sono cresciut* vedendo i sacrifici fatti…” Ovviamente nessuno lo nega, ma non è la stessa cosa.
Nessun* sostiene che i nostri traumi siano più importanti di quelli di persone bianche, o che debbano avere più risonanza rispetto ai loro; ciò che si chiede alle persone bianche è di non aspettarsi che una persona BIPOC spezzi la catena come se fosse bianca. Si richiede una lettura intersezionale di questo tema, su come spezzare la catena e rompere il ciclo. Si chiede di capire che non c’è un solo punto di vista, e soprattutto si chiede di capire che a volte non si può capire, ma si può ascoltare.
È difficile chiedere aiuto, è difficile parlare, è difficile farsi ascoltare.
Per favore, ascoltateci.
ENGLISH TRANSLATION
**Disclaimer:** The term colour*d has been used about the creator of this column, a Black Italian of Afro-American and Afro-Peruvian heritage, who has chosen to reclaim the term once used against them. The violence these words carry is no less severe than the slurs often employed. The intention behind reclaiming these terms is in no way to trigger readers, which is why we feel it’s important to explain the reason for using them.
Breaking the cycle is not easy for anyone, and no experience is more important than another—this must be stated upfront.
But.
However.
Even though.
I must say, it is frustrating how society expects us to face our fears, our traumas, our feelings, as if we were white people—when we are not white.
There are feelings and emotions that a person who does not belong to a minority will never fully understand, and that’s perfectly fine. However, having to confront our adversities as if we were white, and feeling almost grateful for the chance to do so because we were born and/or raised in a predominantly white society, is frustrating and adds a significant barrier to our journey to break the cycle, shatter the chain, and be finally ourselves and free.
Some non-BIPOC people won’t probably understand what I’m talking about, while others will, and that’s absolutely fine—what matters is that you’re reading.
Breaking the chain, whether of abuse, unsafe behaviours, or more general problematic patterns passed down through generations, is not easy. We’re all in this together, right?
However, for us BIPOC, in a world where white supremacy is the most influential form of racism, it is even more complex.
Even though we were born and raised in predominantly white countries, with a “white” culture and way of thinking, we are not white. Our families are not white, our culture is not white, or if we’re of mixed heritage, it’s not 100% white.
In many communities, in many cultures, expressing emotions is not an option: the people who raise you don’t necessarily show affection in the way that white Western society has taught us, but through gestures that may seem “harsh”—what we commonly call “tough love.”
In many communities, in many cultures, going to a psychologist is taboo and it’s seen as a sign of weakness: you must endure, and deciding to end your suffering is seen as a weakness that, in some communities and cultures, is considered shameful.
Have you ever heard someone say, “That’s something white people do” or “That’s just nonsense white people do,” while people laugh at memes on social media with captions and comments saying, “This is some white dumb shit”? However, that “white dumb shit” is a privilege that neither we nor our families can “obtain” without tremendous sacrifice.
A person in need of help goes to a psychologist; if someone is visibly disabled, they are supported by institutions, even if only partially, taking into account recognised daily struggles. Still, the help given is always insufficient. Nevertheless, all these are privileges—luxuries that many BIPOC cannot afford.
Travelling the world to discover ourselves is considered “something white people do” because we BIPOC don’t have the privilege of immediately finding work (or returning to work) after a sabbatical year. No one is looking for us or waiting for us, especially if we hold a certain level of job, even if we were born and/or raised in the country we feel we belong to. Whether we have citizenship or not, we know we don’t have the same privileges.
It’s not just about going to a psychologist and talking. It’s not just about being vulnerable and open. It’s much more than that.
Non-BIPOC people might think these things are considered “something white people do” because we BIPOC often can’t afford to pay for psychological support, but it’s not just about that.
Some BIPOC don’t come from families that are culturally inclined to mental vulnerability, personal identification, or exploration of their sexuality, and so much more.
It’s not just a financial issue.
“Inheriting” the family business is certainly a privilege, but while for white people it may be a choice to take over the work of those who raised them, for BIPOC it’s often a “duty” that you know will fall upon you without anyone asking your opinion. In fact, that business represents the youth of those who raised you, the sacrifices, the tears, the sweat, and the blood of the ones who allowed you to be here; sometimes saying “no” is not easy.
A non-BIPOC person might say, “My parents made sacrifices too,” or “My parents also had nothing and became rich, I grew up watching the sacrifices they made…” Of course, no one denies that, but it’s not the same thing.
No one claims that our traumas are more important than those of white people, or that they should resonate more than theirs; what is being asked of white people is not to expect BIPOC to break the chain as if they were white. What’s being requested is an intersectional understanding of this topic, on how to break the chain and break the cycle. What’s being asked is to understand that there isn’t just one perspective, and most importantly, to understand that sometimes you can’t understand, but you can listen.
It’s hard to ask for help, it’s hard to talk, it’s hard to be heard.
Please, listen to us.
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