Post: Natasha

Edit: Rob. F.

Traduzione: Antonella

Edit Traduzione: Veronica

Grafica: Roberta

DECRESCITA/VITA SEMPLICE REALE O UNA PURA UTOPIA?

Vite perennemente in viaggio con un grande zaino sulla spalla, altre invece che vivono in un camper o altre in una bellissima casetta in campagna. 

Il filo rosso che lega queste tre situazioni sono degli ideali come “vita semplice” o “decrescita felice”. Ma siamo davvero sicur* che sia quello o un altro modo per proporre vite economicamente agiate, facendo sentire * altr* sempre in uno stato di frustrazione e inadeguatezza?

Vita semplice o privilegio occultato in immagini di questo tipo?

LA STORIA DELLA DECRESCITA COME UNICA SALVEZZA PER IL MONDO IN CUI TUTT* VIVIAMO 

Partiamo dalle basi, prima di buttare via tutto. La decrescita felice è un concetto che è stato ideato come slogan provocatorio nel febbraio del 2001 al fine di evidenziare i limiti dello sviluppo sostenibile, meccanismo utilizzato per fronteggiare la crisi ecologica dal Programma delle Nazioni Unite. Si trattava un assalto a ciò che veniva considerata una crescita illimitata, senza misura, ma che comunque veniva nominata con un’accezione positiva, per l’appunto, che si sostiene. 

L’idea di una vita semplice e controcorrente si può trovare sin dall’Antica Grecia con Diogene di Sinope, nel Daodejing di Laozi e in altri numerosi testi. Il primo, personalità molto estrosa, soleva scrivere che il bastare a sé stessi e raggiungere senza sforzo la felicità grazie ad una vita semplice a stretto contatto con la natura avrebbe fatto ritornare l’umanità a sé stessa. Il Laozi, figura quasi leggendaria, invece pensava che la non azione (il wu wei) fosse da intendersi come il tornare a sé stessi e sarebbe possibile solo attraverso l’allontanamento dalle forme sociali organizzate. Nella cultura indiana, ad esempio, vi era la fase del vānaprastha, ossia la vita dell’individuo si concludeva con l’abitare le selve, una fase preparatoria alla propria morte. 

Il ritorno alla natura è qualcosa che è stato ripreso dagli scrittori romantici occidentali e amato dai trascendentalisti nord-americani, come Ralph Waldo Emerson (1803-1882) che vedeva l’industrializzazione e i suoi prodotti come tossici, infatti scriveva che le città non dessero sufficiente spazio ai sensi e alla libertà d* tutt*. Nella stessa epoca di Emerson, viveva anche Henry David Thoreau. Quest’ultimo nella sua opera più famosa Walden (1854), scrisse della sua esperienza in una capanna in un bosco non molto lontana da Concord. 

La baita dove Thoreau visse per qualche anno. Negli scritti, molto affascinanti, si romanticizza la vita isolata e di campagna, senza comprendere che egli viveva veramente vicino ad un centro abitato molto grande, qual è quello di Concord. La naturalezza così svanisce, lasciando il posto ad una più realistica visione dei fatti.

Successivamente, anche l’economista Georgescu-Roegen (1906-1994) sostenne l’impossibilità di una crescita infinita in un mondo finito. Iniziava, anche grazie al movimento new wave,  a promulgare l’idea che non si doveva avere così tante cose: sarebbe stato considerato consumismo e non avrebbe di certo riempito il vuoto che solo la consapevolezza poteva riempire. Prendendo come spunto la seconda legge della termodinamica, giunse alla consapevolezza che ogni attività produttiva comportasse inevitabilmente un’irreversibile degradazione dell’energia e, oltre a questo, non considerava nemmeno gli scarti e l’inquinamento causati da tale meccanismo tossico. 

Sulla scia della teorizzazione dell’economista sovracitato, nel 1972 venne formulato il celebre rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo economico, teorizzando che, se la crescita fosse continuata inalterata, le risorse terrestri si sarebbero prosciugate nel giro di cent’anni. Anche se sembrava che ci fossero delle basi da cui costruire un solido dibattito, il Novecento si concluse senza una reale consapevolezza. 

Solo negli ultimi anni le tematiche sono state ampiamente diffuse, anche in contesti applicativi. 

Il maggior esponente della decrescita è Serge Latouche. Egli intende la decrescita come una diretta conseguenza dei problemi ambientali e della perdita di significato dell’uomo nella società capitalistica, ideando una nuova filosofia economica non più basata su una crescita a priori, quanto su parametri differenti direttamente collegati alla ricerca della soddisfazione della propria vita. Egli propone la decrescita felice/serena al fine di fondare una società più rispettosa dell’ambiente, basata sui concetti di condivisione e comunità per dare un nuovo significato all’essere umano. La trasformazione necessaria si ramifica in un circolo virtuoso di alcune nuove pratiche sintetizzate nel concetto di 8 R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare e riciclare. Nel panorama italiano, le idee teorizzate da Latouche sono state riprese da Maurizio Pallante, il quale ha contribuito a ideare un sostituto del PIL, misura, che secondo lui, non rende la vita veramente degna di essere vissuta: la felicità interna lorda. La felicità coincide proprio con la riduzione della propria dipendenza dal mercato e, di conseguenza, con l’essere meno manipolabil*. 

LA DECRESCITA CHIMERICA DI OGGI

Le chimere non esistono. Come non esistono quelle vite atte ad una decrescita plastificata, artificiale: il loro scopo è solo quello di vendere. Personagg* in van che si godono la vita, gente che gira al mondo, persone che pubblicizzano brand originati da una vita lenta: tutto questo nasconde un privilegio che poch* possono avere. Un privilegio che può essere economico e sociale. Non tutt* si possono permettere di avere una casa in campagna e conseguire una vita lenta. Vi ricordate il film Into the Wild? Ecco, McCandless è un esempio abbastanza lampante, perché la sua famiglia era molto agiata. 

Il concetto di decrescita ha fatto sì che, sotto mentite spoglie, venissero a crearsi infatti brand che seguono il concetto di sostenibilità di facciata, ma altro non fanno che voler vendere un prodotto, un vestito, dei trucchi, e così via. In questo modo, le persone agiscono con meno sensi di colpa, ma ciò che stanno facendo è la stessa cosadi prima: comprare, magari cose di cui non si ha veramente bisogno. Certe cose ovviamente sono meglio di altre, ma proviamo a chiederci: davvero ne abbiamo bisogno? 

Una condizione da cui non possiamo fuggire: comprare oggetti che alla fine non servono nemmeno.

Alla fine, se la si guarda da un’altra prospettiva, si capirà che i meccanismi sono i medesimi anche se vengono presentati più inclusivi: il comprare oggetti, dando a coloro che non se lo possono permettere quel senso di inadeguatezza che è tanto caro ai social. Perché le persone, se sono insicure, sono più controllabili dai flussi di mercato. 

La decrescita dovrebbe in qualche modo opporsi alla concezione capitalistica del mondo, ma viene sfruttata per addomesticare le persone a tale sistema. Diverse maschere, stessa faccia. 

La via di salvezza da tutto questo sarebbe fare parte di una comune che si basa sull’autoproduzione, ma il più delle volte è solo un’utopia. 

La decrescita è un termine indispensabile, ma è quasi inapplicabile nella nostra società, forgiata dal consumismo e dalla competizione. 

L’essere consapevoli degli atti di marketing per vendere, non in linea con un concetto di decrescita, sarebbe un buon punto iniziale. Cercare prodotti, che sono prodotti artigianalmente, senza sfruttamento, potrebbe essere una delle soluzioni. Oppure indirizzare l’acquisto verso brand sostenibili e più inclusivi di altri.  

Un’altra modalità per far sì che questo scellerato processo deceleri, è attraverso l’economia circolare: il riciclo come ingrediente principale per favorire la riduzione degli sprechi. 

Questo è un labirinto da cui non possiamo scappare, ma sarebbe bene provare almeno a orientarci meglio, per noi tutt* e per il futuro che verrà.

SHE/HER NATASHA

English Translation

Some people are perpetually traveling with a large backpack on their shoulders, others instead are living in a camper, while others are in a beautiful house in the countryside. 

The common thread that links these three situations is ideals such as “simple life” or “happy degrowth”. But are we sure that it is that or another way to propose economically comfortable lives, making people always feel frustrated and inadequate?

THE STORY OF DEGROW AS THE ONLY SALVATION FOR THE WORLD WE ALL LIVE IN

Let’s start from the basics, before throwing everything away. Happy degrowth is a concept that was created as a provocative slogan in February 2001 to highlight the limits of sustainable development, a mechanism used to address the ecological crisis by the United Nations Program. It was an assault on what was considered unlimited growth, without measure, but which was nevertheless named with a positive meaning, precisely, which is supported.

The idea of ​​a simple and countercurrent life has existed since Ancient Greece with Diogenes of Sinope, in Laozi’s Daodejing, and in many other texts. The first, a very imaginative personality, used to write that being self-sufficient and effortlessly achieving happiness thanks to a simple life in close contact with nature would bring humanity back to itself. Laozi, an almost legendary figure, instead thought that non-action (wu wei) was to be understood as returning to oneself and would be possible only by distancing oneself from organized social forms. In Indian culture, for example, there was the phase of vānaprastha, that is, the individual’s life ended with living in the woods, a preparatory phase for one’s death.

The return to nature is something that was taken up by Western Romantic writers and loved by North American transcendentalists, such as Ralph Waldo Emerson (1803-1882) who saw industrialization and its products as toxic, he wrote that cities did not give enough space to the senses and freedom of all. In the same era as Emerson, Henry David Thoreau also lived. The latter in his most famous work Walden (1854), wrote about his experience in a cabin in the woods not far from Concord.

Subsequently, the economist Georgescu-Roegen (1906-1994) also supported the impossibility of infinite growth in a finite world. He began, also thanks to the new wave movement, to promulgate the idea that one should not have so many things: it would have been considered consumerism and would certainly not have filled the void that only awareness could fill. Taking the second law of thermodynamics as a starting point, he came to the awareness that every productive activity inevitably entailed an irreversible degradation of energy and, in addition to this, he did not even consider the waste and pollution caused by this toxic mechanism.

In the wake of the theorization of the aforementioned economist, in 1972 the famous report of the Club of Rome on the limits of economic development was formulated, theorizing that, if growth continued unchanged, the earth’s resources would dry up within a hundred years. Even if it seemed that there were some foundations from which to build a solid debate, the twentieth century ended without any real awareness.

Only in recent years, the themes have been widely disseminated, even in applied contexts.

The greatest exponent of degrowth is Serge Latouche. He sees degrowth as a direct consequence of environmental problems and the loss of meaning of man in capitalist society, devising a new economic philosophy no longer based on a priori growth, but on different parameters directly linked to the search for satisfaction in one’s life. He proposes happy/serene degrowth to establish a society that is more respectful of the environment, based on the concepts of sharing and community to give a new meaning to the human being. The necessary transformation branches out into a virtuous circle of some new practices summarized in the concept of 8 Rs: reevaluate, reconceptualize, restructure, redistribute, relocate, reduce, reuse, and recycle. In the Italian panorama, the ideas theorized by Latouche were taken up by Maurizio Pallante, who contributed to devising a substitute for GDP, a measure that, according to him, does not make life truly worth living: gross internal happiness. Happiness coincides precisely with the reduction of one’s dependence on the market and, consequently, with being less manipulable.

TODAY’S CHIMERICAL DECREASE

Chimeras do not exist. Just as those lives aimed at a plasticized, artificial degrowth do not exist: their only purpose is to sell. Characters in vans enjoying life, people traveling the world, people advertising brands originating from a slow life: all this hides a privilege that few can have.

A privilege that can be economic and social. Not everyone can afford to have a house in the countryside and live a slow life. Do you remember the movie Into the Wild? Well, McCandless is a pretty clear example, because his family was very wealthy.

The concept of degrowth has led to the creation of brands that, under false pretenses, follow the concept of superficial sustainability, but do nothing more than want to sell a product, a dress, some make-up, and so on. In this way, people act with less guilt, but what they are doing is the same thing as before: buying, perhaps things that they don’t need. Some things are better than others, but let’s try to ask ourselves: do we really need them?

In the end, if you look at it from another perspective, you will understand that the mechanisms are the same even if they are presented as more inclusive: buying objects, giving those who cannot afford them that sense of inadequacy that is so dear to social media. Because people, if they are insecure, are more controllable by market flows.

Degrowth should somehow oppose the capitalist conception of the world, but it is exploited to domesticate people to this system. Different masks, same face.

The way out of all this would be to be part of a commune that is based on self-production, but most of the time it is just a utopia.

Degrowth is an indispensable term, but it is almost inapplicable in our society, shaped by consumerism and competition.

Being aware of marketing acts to sell, not in line with the concept of degrowth, would be a good starting point. Looking for products, that are handcrafted, without exploitation, could be one of the solutions. Or directing the purchase towards sustainable and more inclusive brands than others.

Another way to ensure that this wicked process slows down is through the circular economy: recycling is the main ingredient to promote the reduction of waste.

This is a labyrinth from which we cannot escape, but it would be good to at least try to orient ourselves better, for all of us and for the future to come.


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