La lezione di Gerusalemme

di Zula

UN ANNO DI PIAZZE PER LA PALESTINA LIBERA E AUTODETERMINATA 

In un anno di impegno e preoccupazione per 3 Palestines3 le piazze sono state un simbolo e un momento per ricordarsi del patto sociale che ci lega: quello di appartenere a un’unica famiglia umana che ha diritto a esistere nella tutela delle reciproche differenze. 

Seppur sottorappresentate dai media mainstream, le piazze e le azioni in favore di un cessate il fuoco e del riconoscimento della lotta del popolo palestinese, in Europa e Italia sono state numerose nel primo anno dal 7 ottobre 2023, data in cui Israele ha drammaticamente intensificato la sua decennale politica genocida.

Le raccolte di materiali e beni di prima necessità si sono interrotte quasi subito – depotenziate dalle azione di coloni e estremisti sionisto-messianici, che organizzati celermente per bloccare l’ingresso di aiuti dal valico di Rafah, hanno spesso devastando la merce e tenuto bloccati alla frontiera autist3 per settimane. Non solo bombe dunque, ma anche fame, malattie, il trauma che diventa leitmotiv della vita quotidiana tra le strade di Gaza. Chi sopravviverà con il corpo riuscirà a farlo con l’anima? 

A un anno dal 7 ottobre l’orizzonte è ancora più nero per chi spera nella pace e nell’autodeterminazione dei popoli. Israele, grazie all’Unione Europea e al grande protettore americano, continua la sua propaganda messianica a suon di bombe in tutta l’area circostante, portando avanti – anche per conto terzi – distruzione, terrorismo e insicurezza, non solo per le persone direttamente coinvolte e colpite dalla guerra santa d’Israele, ma anche per tutt3 l3 ebre3 d’Israele e non. 

Le sirene iniziano a suonare anche su Tel Aviv, le bombe scoppiano a Gaza, a Beirut, in Yemen, in Siria, è arrivato l’attacco iraniano, l’ennesima risposta israeliana. Si aprono nuovi fronti per allontanare ancora una volta lo sguardo di un mondo assuefatto alla visione di un genocidio in diretta streaming, dal fronte interno. Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme, il distretto settentrionale.  

L’occupazione.

L’Apartheid. 

La violenza coloniale. 

LA LIBERAZIONE NON VIOLENTA NON ESISTE

A fine settembre, nel caos generale dell’intensificarsi degli attacchi verso il Libano, per la prima volta le autorità Palestinesi hanno rifiutato 88 cadaveri decomposti, senza nome, arrivati dentro un camion israeliano. Il ministero della sanità lo ha rimandato indietro: chiede che Tel Aviv fornisca «nomi, età, genere, i luoghi in cui sono stati catturati o uccisi», così da poterli identificare, consegnare alle famiglie e garantire loro una degna sepoltura. Era già successo cinque volte nei mesi precedenti, camion pieni di corpi non identificati e decomposti a un punto tale da essere irriconoscibili ai propri cari.

Chi sopravviverà con il corpo riuscirà a farlo con l’anima? 

A vederli sui social network i reparti IDF sembra si divertano: tik tok, trend, saccheggi e esplosioni riportati in diretta, dedicati alla fidanzata o alla mamma, biancheria intima femminile usata come trofeo, foto goliardiche con corpi legati, morti. Non faccio altro che pensare a quel vecchio libro arrivato fino a me, con dentro le iniziali di mio padre, una data e un luogo: Mogadiscio, “I dannati della terra”, racconti di altre guerre, altre resistenze e finali liberazioni. L’ultima opera di Frantz Fanon, seppur datata, rimane una stella polare nella comprensione dell’oppressione coloniale e della liberazione da essa. La violenza con cui la colonia si abbatte sull* colonizzat* può essere spezzata solo dal mezzo che il colonizzatore conosce e con cui afferma la sua umanità sulla remissiva obbedienza dell* colonizzat*: la violenza sancisce l’appartenenza al genere umano, riafferma un principio di parità tra le parti in causa. 

Non ho mai sostenuto Hamas, il suo programma politico, la sua visione del mondo, ma la resistenza ha diritto ad esistere e a difendersi – ed è del dicembre 2023 il primo comunicato programmatico congiunto delle forze resistenti in campo nella Striscia in cui, proponendo punti fondamentali per la causa, si chiamava una fine del genocidio. La guerra contro i semi di vita palestinese si è fatta sempre più violenta mentre nelle spiaggie di Tel Aviv si continuava a giocare a Beach Volley, fare aperitivo, lezione di yoga – come se non stessero estirpando un popolo intero da una terra non loro, derubando le persone non solo della vita, del futuro, della comunità ma anche della cultura, dei modi di dire, dei cibi. Come se non stessero in tanti per tornare al fronte a estirpare, fare “pulizia” e radere al suolo. 

Chi sopravviverà con il corpo riuscirà a farlo con l’anima? 

Tanti sono stati i rimandi alla Shoah ebraica in questi mesi – sebbene ci siano sostanziali differenze col genocidio del popolo palestinese. L’intento di Israele è palesemente quello di liberare la terra da quelli che la propaganda israeliana chiama con disprezzo “arabi”, l3 palesines3, che come semi sono rimasti a concimare la loro terra, radicandosi sempre di più e resistendo all’occupazione nonostante tutto. Presunzione fondativa del colonialismo è quella di considerare come vuote e inabitate le aree della terra che si intende occupare. E le persone e le culture trovate sul posto? Subiscono un processo di animalizzazione: schiavizzate, ghettizzate e vessate, e a farne le spese non sono solo l3 occupat3 ma anche l3 occupanti. Sempre Fanon, aprendoci le porte del suo lavoro di etnografia psichiatrica, ci permette di avere un punto di vista dal margine e al contempo centrale sul sistema colonia, quello della malattia mentale, riflesso interiore del sistema-violenza. Ripercorrendo il decorso clinico de3 suoi pazienti, scopriamo che l’eziologia del trauma è sempre da ricondursi al mondo schizofrenico, dissociato e violento che regola il rapporto tra occupat* e occupante. 

Nei giornali e nelle tv passano di tanto in tanto servizi su qualche giovane israelian* che rifiuta il servizio militare – un raro sprazzo di dissenso che compare sui media mainstream. Costoro, accusat3 di antisemitismo dall3 compatrioti, vivono l’ostracizzazione di una società genocida e completamente militarizzata e al contempo si muovono nel campo semantico dell’assurdo, iniziando a realizzare che forse il mondo così come è stato loro narrato non esiste ed è finzione. Sono comunque una minoranza – coraggiosa e ostracizzata – ma irrisoria e isolata all’interno dell’entità sionista. Sembra che il sogno del “Grande Israele” sia invece comune alla maggioranza dell3 occupanti, “dal fiume al mare”, e anche oltre. 

La speranza in una soluzione diplomatica è svanita da ormai troppi mesi e le persone continuano a morire. Peccherò di presunzione ma credo che ogni singol* palestinese abbia sperato per buona parte della sua esistenza in una soluzione che non prevedesse la reazione armata, il rischio di sterminio, l’esodo forzato. 

LA LEZIONE DI GERUSALEMME

Per Hannah Arendt il peggior male «è quello commesso da nessuno, cioè esseri umani che si rifiutano di essere persone. [..] il malfattore che rifiuta di pensare da sé a quanto sta facendo e che rifiuta quindi pure di ripensarci retrospetivamente, ossia di ricordare quanto ha fatto, non è riuscito e non riesce mai a trasformarsi in qualcuno. E, rimanendo cocciutamente nessuno, costui si dimostra così incapace di intrattenere rapporti con gli altri, che – buoni, cattivi o indifferenti che siano –  sono quantomeno persone»

Viene da chiedersi: con le poche speranze rimaste, quando ci trasformeremo in qualcuno? 

Arendt, osservando e presenziando a tutte le audizioni del processo contro Adolf Eichmann, lo descrive come un uomo “semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità)” e sostiene che tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel periodo. “Se questo è banale e anche grottesco”, continua, “se con tutta la nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o demoniaca, ciò vuol dire che la situazione e il suo atteggiamento fossero comuni”. Conclude l’autrice: “quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”. La lezione di Gerusalemme mette in luce la “strana interdipendenza tra mancanza di idee e il male”. Le idee e la propaganda spesso non sono facili da sostenere; è per questo che da sempre, ma in particolare nel corso dell’ultimo anno  le voci palestinesi sono state scientemente silenziate, e la popolazione relegata solo ai ruoli di vittime inermi o terroristi di nascita. L’aperta ostilità dei giornalisti, l’orientalismo, l’islamofobia e il razzismo hanno guidato il discorso pubblico contro l3 palestinesi di tutto il mondo e l3 loro compagn3 e alleat3. In Italia abbiamo avuto controlli della Digos, perquisizioni sommarie, abuso di potere da parte di politici sionisti, detenzioni in CPR per chi, sprovvisto delle garanzie di cittadinanza, non ha rinunciato al diritto umano della partecipazione politica e di piazza. Un anno difficile e triste – aggravato nelle ultime settimane dalla situazione Libanese e dall’allargamento del conflitto, contro cui le piazze si sono schierate con forza. 

Le democrazie occidentali, in buona parte, vietano le piazze a sostegno della resistenza palestinese, tacciandole di sostegno al terrorismo e antisemitismo. A roma il 5 ottobre la piazza è stata vietata e autorizzato solo tardivamente un presidio caricato con lacrimogeni e idranti sul finire della giornata di tensione, in cui i controlli sono stati serrati non solo a Roma ma su tutte le autostrade italiane per limitare e controllare uno ad uno chi ha aderito alla piazza, in un clima che ha ricordato a molt3 un futuro da G8 di Genova. 

Non ci fermeremo, le piazze continuano, la sorellanza tra i popoli nativi, colonizzati e costretti all’esilio e gli ideali profondamente anticoloniali che animano le piazze del mondo rimangono. Nonostante i nuovi fascismi, la violenza sionista e le forze reazionarie che tentano di soffocarci noi continueremo a gridare GENERATION AFTER GENERATION UNTIL LIBERATION. FREE PALESTINE!

TRADUZIONE: 

Title: The lesson of Jerusalem

A Year of Protests for a Free and Self-Determined Palestine

Over a year of commitment and concern for our Palestinian siblings, public demonstrations have served as both a symbol and a reminder of the social contract that unites us: the recognition that we belong to a single human family entitled to live in a way that respects and protects our mutual differences.

Though often underrepresented in mainstream media, public rallies and actions in support of a ceasefire and the recognition of the Palestinian struggle have been widespread throughout Europe and Italy in the year since October 7, 2023, the date when Israel dramatically intensified its longstanding genocidal policies.

Efforts to collect and distribute essential supplies halted almost immediately, thwarted by actions from settlers and Zionist-messianic extremists. These groups quickly mobilized to block aid from entering through the Rafah crossing, often damaging goods and holding drivers at the border for weeks. Palestinians face not only bombings but also hunger, disease, and a daily trauma that has become the leitmotif of life on Gaza’s streets. For those who survive physically, can they survive emotionally?

One year since October 7, the future looks even darker for those who hope for peace and the self-determination of all people. Thanks to support from the European Union and its powerful American ally, Israel continues its messianic propaganda with bombs across the surrounding region, perpetuating destruction, terrorism, and insecurity—not only for those directly impacted by Israel’s holy war but also for all Jewish people, both in Israel and beyond.

Sirens now wail in Tel Aviv, bombs explode in Gaza, Beirut, Yemen, and Syria faces an Iranian attack, met once again by an Israeli response. New fronts open, deflecting attention from the domestic front as a world desensitized to the live-streamed genocide watches. Gaza, the West Bank, Jerusalem, and the northern district:

The occupation.
The apartheid.
The colonial violence.

NON-VIOLENT LIBERATION DOES NOT EXIST

In late September, amidst the general chaos of intensified attacks on Lebanon, Palestinian authorities for the first time refused 88 decomposed, unnamed bodies, delivered in an Israeli truck. The Ministry of Health sent them back, demanding that Tel Aviv provide “names, ages, gender, and the places where they were captured or killed,” so that they might be identified, returned to their families, and given a proper burial. This had already happened five times in recent months—trucks full of unidentified, decomposed bodies, unrecognizable to their loved ones.

For those who survive physically, will they survive emotionally?

Watching IDF units on social networks, it almost seems like they’re enjoying it: TikTok, trends, looting, and explosions broadcast live, dedicated to girlfriends or moms, women’s underwear used as trophies, humorous photos with bound or dead bodies. I can’t help but think of an old book that made its way to me, inscribed with my father’s initials, a date, and a place: Mogadishu, The Wretched of the Earth, stories of other wars, other resistances, and final liberations. Frantz Fanon’s last work, though dated, remains a guiding light in understanding colonial oppression and liberation from it.

The violence with which the colony crushes the colonized can only be broken by the same means the colonizer uses to assert his humanity over the submissive obedience of the colonized: violence affirms one’s belonging to the human race, reestablishing a principle of equality between the parties involved.

I never supported Hamas, its political agenda, or worldview, but resistance has the right to exist and defend itself. In December 2023, the first joint programmatic statement by resistance forces within the Strip was issued, outlining key points for the cause and calling for an end to genocide. While attacks on the seeds of Palestinian life have intensified, on Tel Aviv’s beaches, people continued playing beach volleyball, having drinks, and attending yoga classes—as if they were not uprooting an entire people from a land that is not theirs, robbing them not only of life, future, and community but also of culture, language, and foods. As if many were not returning to the front to “cleanse” and destroy.

For those who survive physically, will they survive emotionally?

References to the Jewish Shoah have been frequent these past months—though there are substantial differences compared to the genocide of the Palestinian people. Israel’s clear intent is to clear the land of those whom Israeli propaganda disdainfully calls “Arabs,” the Palestinians, who, like seeds, have remained, nourishing their land, taking root, and resisting occupation against all odds. Colonialism’s foundational presumption is that the areas it intends to occupy are empty and uninhabited. And what of the people and cultures found there? They undergo a process of animalization: enslaved, ghettoized, and oppressed, impacting not only the colonized but also the colonizers. Frantz Fanon’s work, rooted in psychiatric ethnography, gives us both a marginal and central perspective on the colonial system: that of mental illness, the internal reflection of a violent system. Tracing the clinical course of his patients, Fanon shows us that trauma’s cause is always tied to the schizophrenic, dissociated, and violent nature of the occupier-occupied relationship.

Every now and then, articles or news segments appear about a young Israeli who refuses military service—a rare glimmer of dissent that makes it to mainstream media. These individuals, accused of antisemitism by fellow citizens, face ostracization in a genocidal and fully militarized society, beginning to realize that perhaps the world as it was narrated to them doesn’t exist and is a fabrication. They are a small minority—courageous and ostracized—yet isolated within the Zionist entity. Meanwhile, the dream of “Greater Israel” seems common among the majority of occupiers, extending “from the river to the sea” and beyond.

Hope for a diplomatic solution has faded for too many months, and people continue to die. I may be presumptuous, but I believe that every single Palestinian has spent a good part of their existence hoping for a solution that did not require armed resistance, the risk of extermination, or forced exodus.

THE LESSON OF JERUSALEM

For Hannah Arendt, the worst evil “is that committed by nobody—that is, human beings who refuse to be persons. […] the wrongdoer who refuses to think for themselves about what they are doing and, therefore, refuses to reflect on it afterward, or to remember what they have done, has failed and never manages to transform into someone. By stubbornly remaining nobody, this person proves incapable of forming relationships with others who—whether good, bad, or indifferent—are, at the very least, people.”

It makes one wonder: with so few hopes left, when will we become someone?

Arendt, observing and attending every hearing of Adolf Eichmann’s trial, described him as a man “simply without ideas (a very different thing from stupidity)” and argued that this lack of ideas predisposed him to become one of the greatest criminals of that era. “If this is banal and even grotesque,” she continued, “if, despite our best efforts, we cannot discover in him any profound diabolic or demonic depth, it means that the situation and his attitude were common.” Arendt concluded, “this detachment from reality and lack of ideas can be far more dangerous than any evil instincts that may be innate in humans.”

The lesson of Jerusalem reveals the “strange interdependence between a lack of ideas and evil.” Ideas and propaganda are not easy to sustain, which is why, especially in the past year, Palestinian voices have been deliberately silenced, and the population has been confined to the roles of either helpless victims or inherent terrorists. The hostility of journalists, orientalism, Islamophobia, and racism have driven public discourse against Palestinians worldwide and their allies. In Italy, we have seen Digos investigations, summary searches, abuses of power by Zionist politicians, and detentions in immigration detention centers for those who, lacking citizenship protections, still held onto their right to political participation and protest.

It has been a difficult and sad year, worsened in recent weeks by the situation in Lebanon and the expanding conflict, against which protests have rallied with force. Western democracies, for the most part, prohibit demonstrations supporting Palestinian resistance, labeling them as supportive of terrorism and antisemitism. In Rome, on October 5, protests were banned, and only a late concession allowed a demonstration that was met with tear gas and water cannons at the end of a tense day, with tightened controls not only in Rome but across Italian highways to monitor and limit those joining the protest, in a climate that reminded many of the G8 in Genoa.

We will not stop; the protests continue. The solidarity among Indigenous peoples, the colonized, and those forced into exile, along with the deeply anti-colonial ideals driving global protests, remains strong. Despite new fascisms, Zionist violence, and reactionary forces that attempt to suppress us, we will continue to shout: GENERATION AFTER GENERATION UNTIL LIBERATION. FREE PALESTINE!


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