«Surronded by forests,
protected by rivers,
I have been born
In a such a wonderful land.
There is gold and silver
and precious metals in this earth
I have been born
in such a wonderful land.
Yes, I have been born
in a such wonderful land.
Stragers are coming here
taking over our lake and rivers.
Our spirits won’t like it,
if we let others take over this land.
No, our spirits won’t like it,
if we let others take over this land.»
Ādivāsin nella valle di Araku, Andhra Pradesh
L’INVISIBILE STORIA ĀDIVĀSIN
Ciò che l’autrice post-coloniale bengalese Mahasweta Devi voleva fare riemergere dalla storia dell’India, sono i cosiddetti Ādivāsin “abitanti primigeni”, ovvero quella macrocategoria, stanziata in varie parti dell’India (ma soprattutto India nord-orientale, come Chhattisgarh, Bihar, Jharkhand e Bengala Occidentale) – nata per il volere delle classi dominanti e dei colonizzatori – che include delle popolazioni che vivevano a stretto contatto con la natura, aventi tradizioni a se stanti rispetto la popolazione di maggioranza. Fino al periodo coloniale, 3 ādivāsin vivevano lontano dai centri urbani, dedit3 ad una vita semplice e ad una conoscenza millenaria del loro ambiente che permetteva loro di sopravvivere anche in ambienti “avversi” per gli altr3 uman3. Non erano considerati della discendenza indo-ariana e quindi non erano inseriti nel sistema delle caste, erano perciò invisibili per il sistema governativo. Questa loro invisibilità portò loro morte e sofferenza, che non si riduce nemmeno oggigiorno.
Ricordiamo che nel XIX secolo i soldati britannici solevano considerare gli ādivāsin con il termine di tribù per via dell’uso che si faceva in quel tempo dall’antropologia, ovvero per designare delle popolazioni arretrate, primitive, appartenenti a stati inferiori di umanità.
Dal XX secolo i modelli evoluzionisti vennero abbandonati e gli studiosi iniziarono a privilegiare altri modelli per analizzare le società. Il termine tribù continuò ad essere utilizzato, ma con una veste nuova. Il termine, staccandosi gradualmente dal panorama coloniale, diventava «a postcolonial marker for selected group whose rights claims must be made in the idioma of tribe versus rulers.»
Durante l’impero britannico, a numerose comunità vennero rubate le terre, poiché «impossibilitati a difendersi legalmente per motivi economico-pratici tra cui il basso livello di alfabetizzazione.»
Ciononostante, 3 ādivāsin si organizzarono in numerose ribellioni, tra queste, quella dei Santhal (1855) è la più celebre:
«Armati di archi e frecce, chiedevano la regolamentazione dell’usura, la riforma dell’imposta fondiaria e l’espulsione degli oppressori indù dalla loro terra. La marcia fu ordinata e tranquilla perché non trovò opposizione, ma alla fine generò episodi di violenza ai danni di alcuni proprietari terrieri e usurai indù. Quando il governo ordinò l’intervento delle forze armate per reprimere la ribellione, gli scontri fra le truppe regolari britanniche e i tribali armati solo di archi e frecce degenerarono in un massacro, nel quale furono uccisi diecimila Santal.»
Con l’avvento dell’Indipendenza si iniziò a parlare maggiormente degli ādivāsin seppur sottolineandone la differenza con la civiltà dominante. A causa di questa netta separazione, si continuava a stabilire la legittimità dell’occupazione degli spazi dei tribali dell’altra società indiana.
Denominate Scheduled Tribes durante l’inizio dell’epoca post-coloniale, gli ādivāsin sono considerati la più numerosa popolazione tribale del mondo. Tuttavia, il maggior numero degli ādivāsin vive ancora in zone remote nelle foreste, mentre il restante, spinto forzatamente verso zone più industrializzate, sopravvive in condizioni di precarietà estrema come baraccopoli, o nei pressi di industrie.
In seguito all’Indipendenza Indiana, essi vennero ancora considerat3 come ladr3, borseggiator3, criminal3 o terrorist3 maoist3.
Tali popolazioni iniziarono ad essere considerate maoiste a seguito malcontenti dei tribali e di altre comunità povere sfociarono nell’insurrezione a Naxalbari, nel Bengala Occidentale. La rivolta, avviata nel 1967, era stata causata dalle infinite oppressioni dei latifondisti e dello sfruttamento a cui tali popolazioni erano soggette. Basato su queste premesse venne creato il movimento dei Naxaliti, una commistione delle classi disagiate e membri radicali del Partito Comunista Indiano, chiamat3 anche “maoist3”. Si creò così il cosiddetto “corridoio rosso” che si estende tuttora dal nord-est al sud-ovest dell’India, ricoprendo una vastissima area. La zona calda è tuttora teatro di scontri sanguinosi armati tra ribell3 e autorità del governo.
Durante il periodo post-coloniale, gli ādivāsin continuarono a perpetrare le lotte già iniziate durante il dominio Britannico. Le loro risorse e i loro territori diventano pian piano appetibili per il mercato industriale globale: la veloce industrializzazione che stava espandendosi nel terreno Indiano aveva aumentato la precarietà delle comunità minoritarie. I subalterni continuarono a vivere in povere condizioni caratterizzate da «a global neo-liberal capitalist order that has supplanted the direct rule of the old colonial powers.»
Ed ecco qui, differenti dominatori e sfruttatori – ma uguale alienazione e sofferenza.
LA RESISTENZA ĀDIVĀSIN: UN CAPITOLO DA RICORDARE
Nella tremenda sofferenza che tali popolazioni vivono, siamo colpevol3 anche noi. Colpevol3 perché compriamo cose di cui non ne sappiamo bene l’origine o forse, non ci importa.
Ora vi riporto dei fatti veri, di cui non ci possiamo lavare le mani.
Una delle infinite storie che potrei scrivere inerenti alla guerra tra ādivāsin e grandi aziende è raccontata da Vandana Śiva. Nel 2002 in Kerala, gli ādivāsin del villaggio di Plachimada manifestarono contro la Coca Cola Company contro l’illegittima appropriazione delle risorse idriche del villaggio per i suoi sistemi di imbottigliamento. L’azienda causò un prosciugamento delle falde acquifere per un periodo di due anni, smaltendo inoltre rifiuti nell’acqua che restava per la comunità. La scrittrice narra dell’episodio in cui parlò con un’anziana indigena del movimento contro la multinazionale:
«Quando le chiesi quale messaggio avrei dovuto portare alla gente di Delhi e al mondo, mi rispose: “Dì a loro che quando bevono la Coca Cola, bevono il sangue del mio popolo.»
A seguito di molte manifestazioni, la Coca Cola Company decise di chiudere l’impianto vicino al villaggio due anni dopo, non fornendo un rendiconto sulla qualità dell’acqua alla popolazione locale.
Il saggio Out of this earth: East India Ādivāsins and the Aluminium Cartel, scritto da Das e Padel, dove vi sono narrate le gravi conseguenze derivanti dall’estrazione di alluminio, ferro, carbone e altri materiali nelle zone di Orissa, Jharkhand, Chattisgarh e Andhra Pradesh. La popolazione che vi abita è maggiormente appartenente agli ādivāsin, i quali non sanno più come vivere. Le decisioni dello sterminio sono state stabilite da ricchi occidentali o da ministri e funzionari pubblici a New Delhi, in quanto vogliono che l’India diventi una replica degli Stati Uniti d’America. L’industria di alluminio si incentra nella bauxite, minerale poroso che si trova nelle montagne, le stesse montagne che dalla popolazione locale sono considerate come divinità. Vengono utilizzati esplosivi per sgretolare la roccia, mentre gli ādivāsin sono obbligati a spostarsi in insediamenti decadenti creati dal governo perché molti dei loro villaggi, a causa della costruzione di dighe, vengono sommersi dall’acqua. Oltre a ciò, queste industrie esalano fumi tossici che provocano gravi problemi alla salute di uomini, animali e altre forme viventi.
Ma oltre alla violenza climatica, 3 ādivāsin, sono anche vittime di violenze, s****i e torture da parte delle forze dell’ordine dello stato Indiano o da proprietari terrieri.
Infatti capita sovente che molti attivisti ādivāsin vengano imprigionati e poi torturati dalla polizia o altri eserciti contro-insurrezione in quanto si sospetta che essi siano dei maoisti. Da citare è la tragica storia di Soni Sori, una maestra in un villaggio tribale di Dantewada nel Chhattisgarh. Nel 2011 la donna venne imprigionata, t********a e s******a dalla polizia locale, in quanto ritenuta spia dei maoisti. L’ufficiale di polizia, Ankit Garg, che ordinò agli uomini di infliggerle più dolore possibile, ricevette una medaglia al valore per l’Anniversario della Repubblica Indiana nel 2012. Quando rilasciata, Soni Sori continuò a lottare per i diritti umani a rischio e nel 2018, dopo essere sopravvissuta ad un attacco con l’acido da una persona non identificata, vinse il Front Line Defenders, un premio per coloro che lavorano in maniera non-violenta per i diritti umani.
Nel 2009 il governo annunciò l’Operazione Caccia Verde, che sanciva l’invio di duecento mila paramilitari in Chhattisgarh, Orissa, Jharkhand e Bengala Occidentale. Nell’arco di tre anni, sono state mandate sul campo le forze armate e l’aviazione nazionale per combattere i maoisti, in zone nelle quali vi vive una delle popolazioni più povere del pianeta, che dovette difendersi contro uno degli eserciti più potenti al mondo.
In linea con la storia de3 maoist3, la scrittrice Arundhati Roy passò un lungo periodo a stretto contatto con i ribelli. Da questa sua esperienza, viene tratto il libro In Marcia con i ribelli (2012). L’autrice, davanti alla situazione de3 ādivāsin, commenta:
«Quando, scacciate dalla città, quelle persone sono tornate da dov’erano venute, hanno trovato i loro villaggi scomparsi, sostituiti da grandi dighe e cave. Le loro abitazioni invase dalla fame e dalla polizia. Le foreste si stavano riempiendo di guerriglieri armati. Era emigrata anche la guerra. [..] Perciò sono tornate nelle vie e sui marciapiedi affollati della città. Si sono ammassate in qualche baracca dentro polverosi cantieri edili, chiedendosi quale angolo di questa nazione immensa fosse destinato loro.»
Il sostegno dato alle insurrezioni maoiste non ha solo un significato politico, ma funge inoltre da aspra critica contro il bieco progresso, che ha dentro di sé i meccanismi della distruzione non solo degli ādivāsin, ma di tutto il mondo.
Il processo di appropriazione dei territori tribali da parte delle grandi industrie, viene definita da Roy, come l’insieme di «misure per creare un clima favorevole agli investimenti».
Tutto tace, mentre al di fuori tutto perisce. Il silenzio è assordante, quando un’intera popolazione è vittima di uno sterminio sistematico dal governo locale ma anche dalle multinazionali estere.
La strada da intraprendere, come indicava Devi, è quella di far risuonare sempre alte le voci delle storie dei popoli subalterni, senza lasciare che la storia le dimentichi e le cancelli. Così facendo, opponendosi all’oblio della storiografia ufficiale, la divulgazione degli ideali e delle lotte degli oppressi può riportare alla luce e mantenere in vita la voce di questi popoli, attraverso una narrazione «ostinata e ribelle.»
Spazi verdi immensi che stanno scomparendo a favore del progresso, mentre coloro che la abitano e la proteggono viene uccis3 e la sua voce taciuta.
TRANSLATION:
«Surronded by forests,
protected by rivers,
I have been born
In a such a wonderful land.
There is gold and silver
and precious metals in this earth
I have been born
in such a wonderful land.
Yes, I have been born
in a such wonderful land.
Stragers are coming here
taking over our lake and rivers.
Our spirits won’t like it,
if we let others take over this land.
No, our spirits won’t like it,
if we let others take over this land.1»
Ādivāsin in the Araku Valley, Andhra Pradesh
THE INVISIBLE ĀDIVĀSIN STORY
What the Bengali post-colonial author Mahasweta Devi wanted to unbury from Indian history are the so-called Ādivāsin, the “first inhabitants”. This is a category born at the behest of the ruling classes and the colonisers, which indicated groups settled in various parts of India (but especially the north-eastern regions such as Chhattisgarh, Bihar, Jharkhand and West Bengal). The populations included in this category tend to live in close contact with nature, having radically different traditions from the majority population. Until the colonial period, the ādivāsin used to live far from urban centres, they conducted a simple life and held millenary knowledge of their land that enabled them to survive even in environments considered “adverse” to other humans. Historically, they have not been considered to be of Indo-Aryan descent and therefore have not fit into the caste system, thus being invisible in the eyes of the government. This invisibility brought them death and suffering, which has not improved to this day.
It should be remembered that in the 19th century, British soldiers used to regard the ādivāsin as tribes because of the word’s usage in anthropology at the time, i.e. to designate backward, primitive populations belonging to lower classes of humanity.
By the 20th century, evolutionary models were abandoned and scholars began to favour other models for analysing societies. The term tribe continued to be used, but in a new guise. The term, gradually gaining distance from the colonial landscape, became «a postcolonial marker for selected groups whose rights claims must be made in the idiom of tribe versus rulers.2»
During the British Empire, many communities had their lands stolen, as they were «unable to legally defend themselves for economic-practical reasons including low literacy levels.3»
Nevertheless, the ādivāsin organised themselves into numerous rebellions, of which the Santal rebellion (1855) is the most famous:
«Armed with bows and arrows, they demanded the regulation of usury, land tax reform, and the expulsion of Hindu oppressors from their land. The march was orderly and peaceful because it found no opposition, but it eventually generated incidents of violence against some Hindu landowners and moneylenders. When the government ordered the intervention of armed forces to suppress the rebellion, clashes between regular British troops and tribals armed only with bows and arrows degenerated into a massacre, in which ten thousand Santals were killed.4»
With the advent of Independence, people began talking more about the ādivāsin, albeit emphasizing their difference from the dominant civilization. Because of this clear separation, the legitimacy of the occupation of tribal spaces by the rest of Indian society continued to be upheld.
Called Scheduled Tribes during the early post-colonial era, the ādivāsin are considered the largest tribal population in the world5. However, most ādivāsin still live in remote areas in the forests, while the remainder, forcibly pushed to more industrialized areas, survive in extremely precarious conditions, for instance in slums or near factories.
Following Indian Independence, they were still regarded as thieves, pickpockets, criminals or Maoist terrorists.
These populations began to be considered Maoists following the discontentment of the tribals and other poor communities which resulted in the insurgency of Naxalbari, West Bengal. The uprising, started in 1967, had been caused by the endless oppression of landlords and exploitation to which these people were subjected. Based on this premise, the Naxalite movement was created, gathering the deprived classes and radical members of the Communist Party of India, also known as “the Maoists”. This created the so-called “red corridor”, which still stretches from northeast to southwest India, covering a vast area. The hot zone is still the scene of bloody armed clashes between rebels and government authorities.
During the post-colonial period, the ādivāsin continued to fight the same fights that had already begun under British rule. Their resources and territories slowly became desirable for the global industrial market: the rapid industrialization expanding in Indian soil increased the precariousness of minority communities. The subalterns continued to live in poor conditions characterized by «a global neo-liberal capitalist order that has supplanted the direct rule of the old colonial powers.6»
And there you have it, different rulers and exploiters – but equal alienation and suffering.
ĀDIVĀSIN RESISTANCE: A CHAPTER TO REMEMBER
We are also culpable for all the tremendous suffering endured by such populations. We are guilty of buying things we don’t really know the origin of or perhaps without caring enough to find out.
I will now expose some facts that we cannot wash our hands of.
One of the endless stories concerning the war between ādivāsin and big business is told by Vandana Śiva. In 2002 in Kerala, the ādivāsin of Plachimada village protested against the Coca Cola Company‘s illegitimate appropriation of the village’s water resources for its bottling systems. The company caused the groundwater to dry up over a period of two years and also disposed of waste in the water reserves destined to the community. The writer recounts the episode when she spoke with an elderly indigenous woman about the movement against the multinational company:
«When I asked her what message I should take to the people of Delhi and the world, she said, ‘Tell them that when they drink Coca Cola, they are drinking the blood of my people.7»
Following many demonstrations, the Coca Cola Company decided to close the plant near the village two years later, failing to provide an accounting of water quality to the local people.
The essay Out of this earth: East India Ādivāsins and the Aluminium Cartel, written by Das and Padel, tells of the serious consequences of mining aluminum, iron, coal and other materials in the areas of Orissa, Jharkhand, Chattisgarh and Andhra Pradesh. The people living there are mostly ādivāsin, and they no longer know how to live. Extermination rules have been determined by wealthy Westerners or ministers and civil servants in New Delhi, as they want India to become a replica of the United States of America. The aluminum industry is centered in bauxite, a porous mineral found in the mountains, those same mountains that locals consider to be gods. Explosives are used to crumble the rock, while the ādivāsin are forced to move to government-established decaying settlements because many of their villages are being submerged by water due to the construction of dams. In addition to this, these industries exhale toxic fumes that cause serious health issues for humans, animals and other living forms8.
In addition to climate violence, the ādivāsin are also victims of violence, r**e and torture by Indian state law enforcement or landowners.
In fact, it is often the case that many ādivāsin activists are imprisoned and then tortured by the police or other counterinsurgency armies under suspicion of being Maoists. Worth mentioning is the tragic story of Soni Sori, a schoolteacher in a Dantewada tribal village in Chhattisgarh. In 2011, believed to be a spy for the Maoists, the woman was imprisoned, tor**red and r***ed by the local police. Ankit Garg, the police officer who ordered his men to inflict as much pain on her as possible, received an Indian Republic Anniversary Medal of Valor in 2012. When released, Soni Sori continued to fight for human rights at risk. In 2018, after surviving an acid attack by an unidentified person, she won the Front Line Defenders, an award for those who work non-violently for human rights9.
In 2009, the government announced Operation Green Hunt, which sanctioned the deployment of two hundred thousand paramilitaries to Chhattisgarh, Orissa, Jharkhand, and West Bengal. Over a period of three years, the national armed forces and air force were sent into the field to fight the Maoists. Suddenly, one of the poorest populations on the planet had to defend themselves against one of the most powerful armies in the world.
Writer Arundhati Roy spent a long period in close contact with the Maoists rebels. Drawing from this experience she wrote the book On the March with the Rebels (2012). The author, faced with the ādivāsin’s situation, comments:
«When, driven out of the city, those people returned to where they came from, they found their villages gone, replaced by large dams and quarries. Their homes overrun by hunger and police. The forests were filling up with armed guerrillas. The war had also migrated. […] So they returned to the crowded streets and sidewalks of the city. They piled into a few shacks inside dusty construction sites, wondering what corner of this immense nation was meant for them.10»
The support given to the Maoist insurrections has not only political significance, but also serves as a bitter critique against the wicked progress, which contains within it the mechanisms of destruction not only of the ādivāsin, but of the entire world. The process of appropriation of tribal lands by big industries, is defined by Roy, as the set of «measures to create a favorable investment climate.11»
All is silent, while outside, all perishes. When an entire population is the victim of systematic extermination by the local government as well as foreign multinationals, silence is deafening.
The way forward, as Devi indicated, is to make the voices and stories of the subalterns heard clearly, without allowing history to forget and erase them. By opposing the oblivion of official historiography through «unyielding and rebellious storytelling12», the popularisation of the ideals and struggles of the oppressed can bring the voices of these peoples to light and keep them alive.
Immense green spaces are disappearing in the name of progress, while those who inhabit and protect them are being killed, and their voices silenced.
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