Riflessioni sui viaggi organizzati: come il viaggio diventa un bene di consumo etnocentrico occidentale

di Natasha

(English below the cut)

I cosiddetti tour operator si stanno diffondendo a macchia d’olio, assomigliando sempre più a delle grandi aziende: ciò che viene esaltato è un viaggio fast e light per uscire dalla routine della nostra comfort zone. Vengono privilegiate mete lontane dal sapore esotico (traducibile con “più instagrammabili”) per una durata striminzita di nemmeno due settimane. Questo muoversi sempre più velocemente rappresenta una condizione normale delle persone, ma anche un ideale da raggiungere, l’agognata tendenza che, secondo il sociologo Rodolphe Christin, viene incarnata dalle classi più abbienti del nostro sistema, dando rappresentazione di sé stess* in ogni dove”. L’uso massivo dei social media e di altri strumenti tecnologici, per lo studioso ormai diventati i nostri “cervelli di scorta”, fanno appiattire il senso del viaggio stesso, rendendo più importante la quantità rispetto alla qualità della nostra esperienza. Si conclude quindi che la mobilità – o ipermobilità – sia d’obbligo nella nostra società dei consumi, acquisendo però caratteristiche performative che prima non possedeva (perché ovviamente non si avevano mezzi così veloci e il viaggio era a scopo conoscitivo). 

Ma cosa succede se analizziamo bene cosa vi è dietro tale meccanismo? Se riuscissimo a decostruire tale processo, potremmo venire alla conclusione che altro non è che una commistione tragica di banalizzazione culturale e di massivo inquinamento climatico?

Abbiamo letto le vostre risposte, tra le quali sono emerse delle tematiche che tratterò in seguito. 

Il viaggio quindi non è più spinto da esigenze conoscitive/culturali vere, ma piuttosto da un caotico riempimento di una lista. Pensiamo a quante persone vediamo scritto n* tot.nazioni visitate/195 oppure alle gare per vedere le meraviglie del mondo. Non percepite che ci sia qualcosa di veramente grave e superficiale in tutto ciò?

Le vostre risposte e le nostre infinite domande: la solidarietà unicamente tra i privilegiati e l’indifferenza verso le culture locali

La prima tra queste affermava che tali viaggi organizzati celassero meccanismi eurocentrici o etnocentrici occidentali, cioè che in queste fughe dalla comfort zone vi fossero vere e proprie forze asimmetriche tra Occidente e paesi del Sud globale. 

L’intraducibilità, o la mancanza di un terreno di condivisione deriva da numerosi fattori, uno dei quali è la totale impreparazione de* travel coordinator riguardo alla cultura ospite: infatti, non vengono fatti degli interventi preparatori e non vengono esposte “voci” autentiche de* membri di quella popolazione autoctona e, così facendo, si viene a creare un’immagine alquanto deformata della cultura che si sta visitando, ritenuta – silenziosamente – inferiore. Quante volte abbiamo assistito a commenti denigratori sugli usi e costumi di una cultura ospitante? Uno degli esempi più aberranti si trovano nel programma televisivo “Pechino Express”, che fatichiamo veramente a guardare. Tra qualche risatina e giochetto che consiste nel portare dei fiori (lanciati, senza alcun rispetto) in un tempio, si stabilisce una forma della white supremacy a stampo meramente etnocentrico occidentale. 

Alcun* di voi ci hanno scritto che tali organizzazione di viaggio si propongono essere veicoli di esperienze life changing, tuttavia si rivelano essere quasi alla stregua del team-building, dove l’atteggiamento fondante è vedere ciò che fanno le persone locals per avere un’esperienza più autentica, che rimanda molto a gusti coloniali quando “andare a scoprire quanto loro sono divers* da noi” era un’abitudine. Le persone locals infatti vengono cristallizzate come se fossero monoliti a-temporali/a-spaziali, considerate e classificate da una cultura, come quella occidentale, che per avere un’esperienza più autentica le cerca ossessivamente, cadendo inevitabilmente nella loro banalizzazione e stereotipizzazione. 

Anche l’India, che, secondo il nostro immaginario collettivo è concepita come la terra della spiritualità, viene appiattita e banalizzata dall’occhio occidentale. Anche la povertà in cui riversa tale nazione viene in qualche modo superata resa innocua davanti alle nostre numerose foto a questa popolazione (per la maggior parte senza consenso). Oltre a ciò si continuano ad esaltare approcci Orientalisti, come quello dell’acclamato libro Shantaram, dove il white saviourism è a livelli altissimi (ma noi continuiamo a concepirlo come un testo fondante per la conoscenza di tale cultura caleidoscopica.

L’immaginario della memoria coloniale e silenziosamente razzista non è cambiato più di tanto, ma viene celato con frasi banali e di cliché, più o meno come “the world is ours” “one world one humanity” “we…”, sì.. solo se appartieni al 2,5% della popolazione mondiale, aggiunge la studiosa danese Jennie Dielemans1. In sintesi, si esprime che il mondo è uguale per tutt*, non percependo minimamente i privilegi che noi persone occidentali abbiamo per fare un viaggio in mete così lontane e la nostra legittimazione per distruggere anche i loro ecosistemi (perché tanto con il turismo diamo loro lavoro). Possiamo supporre che vi è una tossicità insita a questi rapporti. La già citata studiosa Dielemans, nell’opera illuminante Benvenuti in paradiso. Dietro le quinte del turismo di massa, espone la distruzione-costruzione di un posto lontano secondo i dettami dell’Occidente. Con la giustificazione del diritto a prendersi una pausa e di questa povera gente che ha bisogno di lavorare altrimenti “muore di fame” (un po’ come la giustificazione coloniale del dobbiamo educare questo popolo di primitiv*), distruggiamo intere aree e nel momento in cui queste zone diventino troppo turistiche, ossia troppo poco esotiche secondo il nostro immaginario e che ricorda troppo i nostri assetti urbani, la abbandoniamo e con essa anche la sua stessa popolazione facendo sì che l’industria del turismo volga interesse da un’altra parte. In linea con questo pensiero, coloro che hanno il privilegio di viaggiare con queste associazioni (che hanno in realtà costi molto alti) entrano a fare parte di questo circolo vizioso, anzi, sono proprio questi i fondamenti perché costituiscono una parte numerosa del mercato che sceglie tali mete. Più soldi, più distruzione, più gentrificazione. dando così meno spazio al rispetto della cultura ospitante, avente uguale dignità di esistere come la nostra. 

La banale attrazione turistica: tra impatto climatico e mete tanto agognate senza un vero motivo

L’ipocrita concezione del “we are one”, del “siamo tutt* globalmente conness*” si esplicita anche con un orribile greenwashing. Numerose volte tali viaggi vengono etichettati – per motivi di marketing – con il nome di “etici” o “ecosostenibili”, ma tale denominazione è un paradosso della sua vera essenza: un viaggio “usa e getta” che vuol scoprire una cultura plastificata considerata culturalmente inferiore. Stando a questa tesi, anche l’uso massivo di aerei per andare in capo al mondo per starci qualche settimana è una vera bestemmia alla sostenibilità: questo genere di mezzo è il più impattante tra tutti e a causa di questo si viene trasportat* in un altro mondo radicalmente diverso dal nostro, senza avere visto cosa vi è in mezzo. Per chiarire meglio il secondo punto, occorre citare Tiziano Terzani che decise – con una premonizione da un indovino – di non prendere più aerei. Egli scrisse “appena si decide di farne a meno, ci si accorge di come gli aerei ci impongono la loro limitata percezione dell’esistenza; di come, essendo una comoda scorciatoia di distanze, finiscono per scorciare tutto: anche la comprensione del mondo.” Accorciando quindi le distanze nel nostro occhio, diminuiamo anche la comprensione da parte nostra di culture nuove. 

Un esempio lampante sono gli episodi che sono susseguiti a Bali, dove turist* – totalmente ignoranti a riguardo del patrimonio culturale di questa isola indonesiana – hanno dei comportamenti osceni, che vanno a scontrarsi con le leggi locali (sesso in pubblico e il non rispetto di leggi, tra cui l’uso del casco e il vestirsi in modo appropriato), tanto che una persona autoctona afferma, in un articolo di Vice: “sometimes foreigners don’t completely understand that Bali is still a home for people. They see it as just this Disneyland that’s there for their enjoyment and their pleasure”. Di conseguenza, un’isola come quella di Bali viene snaturalizzata e trasformata in una sorta di luna park, in cui tutt* sembrano felici nella loro condizione da occidentali in vacanza2, un luogo dove gli aspetti culturali sono stati definitivamente eliminati per rispondere alla nostra ossessiva domanda di mercato (chiediamoci quante persone vanno ora a Bali perché va di moda). La soluzione de* balinesi è stata quindi la creazione di cartelloni o altre cose che suggeriscono l’atteggiamento rispettoso da tenere nei confronti di una popolazione che vede la sua terra devastata, sfruttata e banalizzata dal turismo di massa. La decisione della popolazione locale è nata come per reagire ad un comportamento razzista, a dir poco, neocoloniale.

Quante persone a Bali senza conoscere minimamente la cultura ospitante abbiamo visto questo anno? E quant* influencer che vanno a viverci facendo una vita da super privilegiati mentre la popolazione trascorre una vita in condizioni di povertà in un luogo ormai de-culturalizzato?

Io c’ero, ma non c’ero

Il viaggio d’oggi si configura come uno strumento al vedere piuttosto che al sentire, stabilendo la formazione di un’aggressiva competizione su chi visita più luoghi possibili. L’unico organo sottoposto a questa operazione, la vista fa sì che il viaggio sia veloce, superficiale e soprattutto condivisibile. Il selfie o le foto diventano strumento della loro presenza in un luogo, senza capirne le vere dinamiche culturali. “Molti viaggiatori scelgono le destinazioni di viaggio sulla base di ciò che hanno visto su Instagram, solo per scattarsi una foto in quei luoghi..” asserisce Massimiano Bucchi nella sua opera Confidenze digitali. Oltre a ciò, egli scrive “ In questa tendenza imitativa va considerato il ruolo di un’emozione: l’invidia. La stessa etimologia dell’invidia richiama la visione della condizione altrui e il confronto con la propria. I viaggi e le vacanze offrono numerose occasioni di sollecitazione di invidia. Nel “selfie tourism” l’invidia si orienta verso la possibilità di farsi fotografare negli stessi posti, o in posti altrettanto belli. Conclude “il selfie del turista è una presentazione idealizzata del sé e delle proprie esperienze, che ricrea i luoghi turistici anziché ritrarli fedelmente. Una delle conseguenze è il sovraccarico di luoghi da cartolina, spesso inadatti a sostenere una massiccia presenza turistica.”3

Ormai non riusciamo più a sentirci parte di un luogo che visitiamo, a respirarlo e apprezzarlo in silenzio. Dobbiamo per forza mettere la nostra faccia sorridente in un bel panorama al fine di appropriarci di quell’area, di avere, un pezzo nostro – egoistico – in quel luogo. E ridicolmente, quella foto che sembra così tanto naturale è frutto di una lunga attesa in una fila, più le svariate modifiche di editing per far sembrare il posto più “acchiappa like”. Non al fine di ricordare quel momento, ma di postarlo sui social per ottenere likes e un po’ di (mal)sana invidia da parte dei nostri followers.

Allora, decostruiamo l’immaginario del viaggio insieme, scegliendo mete più vicine, privilegiando ritmi più lenti – sia per rispetto ambientale che per la cultura ospitante. Ricordiamoci di essere in una zona con una cultura già esistente, non un foglio bianco sul quale noi – da brav* occidentali – possiamo sporcare o disegnare secondo le nostre volontà. Lasciamo a queste popolazioni autodeterminazione culturale e sociale, senza andare lì per schernirle o a scopi “educativi”. Iniziamo a preferire alloggi ecosostenibili (ecoairbnb et similia) rispetto ai villaggi turistici e Workaway che sostengono comunità locali. Quest’ultimo è uno dei modi migliori per immergersi (non completamente, perché questo non avverrà mai a causa dei diversi background culturali) nella cultura della comunità ospitante. Oppure, anche un cammino può configurarsi come un modo di viaggio lento, consapevole e nel rispetto della natura. 

Il viaggio non deve essere una riproduzione del lavoro: performante, stressante e senza pause, uno strumento incline a fare emergere radicali differenze sociali ed economiche, ma un modo per scoprire, con l’atto di ribellione della lentezza, posti nuovi e condividere – sempre da ospite – un’esperienza fuori dai canoni consumistici. Scegliamo dunque di vivere più lentamente e consapevolmente, anche attraverso l’esperienza di viaggio. 


Letture consigliate: 

  • Christin Rodolphe, Turismo di massa e usura del mondo, Elèuthera
  • Jennie Dielemans, Benvenuti in paradiso, Bruno Mondadori
  • Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo da Mark Twain al Covid-19, Feltrinelli
  • Massimiliano Bocchi, Confidenze digitali. Vizi e virtù dell’innovazione tecnologica, Il Mulino
  • Tiziano Terzani, Un indovino mi disse

  1.  Jennie Dielemans, Benvenuti in paradiso, Bruno Mondadori, p. 208 ↩︎
  2. https://www.vice.com/en/article/z3mevy/police-crackdown-tourists-bali ↩︎
  3. Massimiano Bucchi, Confidenze digitali, ↩︎

Considerations about organized trips: how travel becomes a Western ethnocentric consumer good

Written by Natasha

Translated by Sophie

Tour operators are spreading like wildfire, increasingly resembling large companies: the main is a fast and light trip to escape the routine of our comfort zone. Faraway destinations with an exotic flavor (translated as “more instagrammable”) are favored for a short duration of not even two weeks. This moving ever faster represents both a normal condition of people, but also an ideal to be achieved, the longed-for trend, which according to the sociologist Rodolphe Christin, is embodied by the wealthier classes of our system, “giving representation of themselves in everywhere.” The massive use of social media and other technological tools, which for the scholar have now become our “spare brains”, flatten the meaning of the journey itself, making the quantity more important than the quality of our experience. It is therefore concluded that mobility – or hypermobility – is a must in our consumer society, while acquiring performative characteristics that it did not possess before (because obviously we did not have such fast means of transport and the journey was for cognitive purposes).

But what happens if we analyze carefully what is behind this mechanism? If we managed to deconstruct this process, could we come to the conclusion that it is nothing more than a tragic mix of cultural banalization and massive climate pollution?

We have read your responses, among which some themes emerged that I will discuss later.

The journey is therefore no longer driven by actual cognitive/cultural needs, but rather by a chaotic filling of a list. Let’s think about how many people write the number of countries visited, or the races to see the wonders of the world. Don’t you sense that there is something really superficial in all this?

Your answers and our endless questions: solidarity only among the privileged and indifference towards local cultures

The first of these stated that such organized trips concealed western eurocentric or ethnocentric mechanisms, meaning that in these escapes from the comfort zone there were real asymmetric forces between the West and the countries of the global South.

The untranslatability, or the lack of a sharing ground, derives from numerous factors, one of which is the total unpreparedness of the travel coordinators regarding the host culture: there are no preparatory interventions and no authentic “voices” of the members of that native population resulting in a somewhat distorted image of the culture you are visiting, considered – silently – inferior. How many times have we witnessed disparaging comments about the habits and customs of a host culture? One of the most aberrant examples can be found in the television program “Pechino Express”, which we really struggle to watch. Between a few giggles and a game that consists of bringing flowers (thrown, without any respect) into a temple, a form of white supremacy with a purely ethnocentric western mold is established.

Some of you have written to us that these travel organizations aim to be vehicles for life-changing experiences, however they turn out to be almost like team-building, where the fundamental attitude is to see what local people do in order to have a more authentic experience, which harks back to colonial tastes when “going to discover how different they are from us” was an habit. In fact, local people are crystallized as if they were timeless and aspatial monoliths, considered and classified by a culture, such as the western one, which obsessively seeks them out to have a more authentic experience, inevitably falling into their trivialization and stereotyping.

Even India, which, according to our collective imagination, is conceived as the land of spirituality, is flattened and trivialized by the western eye. Even the poverty in which this nation finds itself is somehow overcome and rendered harmless in front of our numerous photos of this population (mostly taken without consent). In addition to this, Orientalist approaches continue to be exalted, such as the one of the acclaimed book Shantaram, where white saviourism is at very high levels (but we continue to conceive it as a foundational text for the knowledge of this kaleidoscopic culture.

The imagery of colonial and silently racist memory has not changed much, but is hidden with banal and clichéd sentences, more or less like “the world is ours” “one world one humanity” “we…”, yes.. only if you belong to 2.5% of the world’s population, adds Danish scholar Jennie Dielemans. In summary, it is expressed that the world is the same for everyone, not perceiving the privileges that western people have to travel to such distant destinations and our legitimacy to destroy their ecosystems too (because <<with tourism we give them work>>). We can assume that there is an imbalance inherent in these relationships. The aforementioned scholar Dielemans, in the enlightening work Welcome to paradise, exposes the destruction-construction of a distant place according to the dictates of the west that is behind the scenes of mass tourism. With the justification of <<the right to take a break>> and of <<these poor people who need to work otherwise they “die of hunger”>> (a bit like the colonial justification of <<we must educate these primitive people>>), we destroy entire areas and at the moment when these areas become too touristy – meaning too little exotic according to our imagination and which is too reminiscent of our urban structures – we abandon it and, with it, its own population, causing the tourism industry to turn its interest elsewhere. In line with this thought, those who have the privilege of traveling with these associations (at a very high cost) become part of this vicious circle. Indeed, these are precisely the foundations because they constitute a large part of the market that chooses such destinations. More money, more destruction, more gentrification, thus leaving less space to respect the host culture who has the same dignity of existing as ours.

The banal tourist attraction: between climate impact and long-awaited destinations for no real reason

The hypocritical concept of “we are one”, of “we are all globally connected” is also expressed with horrible greenwashing. Many times such trips are labeled – for marketing reasons – with the name of “ethical” or “eco-sustainable”, but this denomination is a paradox of its true essence: a “disposable” trip that seeks to discover a plasticized culture considered culturally inferior. According to this thesis, even the massive use of planes to go to the end of the world to stay for a few weeks is a true blasphemy to sustainability: this type of means is the most impactful of all and because of this one is transported to another world radically different from ours, without having seen what is in between. To clarify the second point better, it is necessary to quote the writer Tiziano Terzani who decided – with a premonition from a fortune teller – not to take any more planes. He wrote “as soon as you renounce flying, you realize how airplanes impose their limited perception of existence on us and how, being a convenient shortcut of distances, they end up shortening everything: even the understanding of the world.” Therefore, by shortening the distances in our eye, we also decrease our understanding of new cultures.

A clear example are the episodes that followed one another in Bali, where tourists – totally ignorant of the cultural heritage of this Indonesian island – engaged in obscene behavior, which clashed with local laws (sex in public and non-compliance with laws, including wearing a helmet and dressing appropriately), so much that one native person states, in a Vice article: “sometimes foreigners don’t completely understand that Bali is still a home for people. They see it as just this Disneyland that’s there for their enjoyment and their pleasure”. Consequently, an island like Bali is denaturalized and transformed into a sort of amusement park, where everyone seems happy in their condition as westerners on holiday, a place where the cultural aspects have been definitively eliminated to respond to our obsessive market demand (we should ask ourselves: how many people now go to Bali because it is fashionable?). The Balinese solution was therefore the creation of posters or signs that suggest the respectful attitude to have towards a population that sees his land devastated, exploited and trivialized by mass tourism. The decision of the local population was born as a reaction to racist, to say the least, neocolonial behavior.

How many people in Bali without any knowledge of the host culture have we seen this year? And how many influencers go to live there, leading a super-privileged life while the population spends a life in poverty in a now de-culturalized place?

I was there, but I wasn’t there

Today’s travel is configured as a tool for seeing rather than hearing, establishing the formation of an aggressive competition over who visits as many places as possible. The only organ subjected to this operation – sight – makes the journey fast, superficial and above all shareable. The selfie or photos become an instrument of their presence in a place, without understanding its true cultural dynamics. “Many travelers choose travel destinations based on what they have seen on Instagram, just to take a photo in those places..” asserts Massimiano Bucchi in his work Digital confidences. In addition to this, he writes “In this imitative tendency the role of an emotion must be considered: envy. The very etymology of envy recalls the vision of the condition of others and the comparison with one’s own. Travel and holidays offer numerous opportunities to stimulate envy. In “selfie tourism” envy is oriented towards the possibility of being photographed in the same places, or in equally beautiful places. He concludes “the tourist selfie is an idealized presentation of the self and one’s experiences, which recreates tourist places rather than faithfully portraying them. One of the consequences is the overload of postcard places, often unsuitable to support a massive tourist presence.”

Now we can no longer feel part of a place we visit, breathe it and appreciate it in silence. We must necessarily put our smiling face in a beautiful panorama in order to appropriate that area, to have our – selfish – piece in that place. And ridiculously, that photo that looks so natural is the result of a long wait in a queue, plus various editing changes to make the place look more like-getting. Not in order to remember that moment, but to post it on social media to get likes and a bit of (un)healthy envy from our followers.

So, let’s deconstruct the imagery of traveling by choosing closer destinations, favoring slower paces – both out of respect for the environment and for the host culture. Let’s remember that we are in an area with an already existing culture, not a blank sheet of paper on which we – as good westerners – can dirty or draw according to our wishes. Let cultural and social self-determination to these populations, avoiding going there to mock them or for “educational” purposes. We are starting to prefer eco-sustainable accommodation (eco airbnb et similia) over tourist villages and hotels and support workways who support the local community. The latter is one of the best ways to immerse yourself (not completely, because this will never happen due to different cultural backgrounds) in the culture of the host community. Or, even a walk can be configured as a slow, conscious and respectful way of traveling for nature.

Travel must not be a reproduction of work: high-performance, stressful and without breaks, a tool inclined to bring out radical social and economic differences, but a way to discover, with the rebellious act of slowness, new places and share – always as a guest – an experience outside the consumerist canons. We therefore choose to live more slowly and consciously, also through the travel experience.​


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