di Roberta
(English below the cut)
«Così a parlar la prima era Minerva:
(Omero, Odissea, libro XIII, vv. 438-446, tr. it. Pindemonte I.)
studiar convienti, o Laerziade, come
metter la man su gli arroganti drudi,
che regnano in tua casa, oggi è terz’anno,
e della moglie tua con ricchi doni
chiedono a gara le bramate nozze.
Ella, ognor sospirando il tuo ritorno,
ciascun di speme, e d’impromesse allatta,
manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.»
Minerva, dea della saggezza e protettrice dell’esule Ulisse, redarguisce l’uomo su quanto sta accadendo nella sua casa. La storia è nota: le peregrinazioni del protagonista del poema omerico per tornare nella sua patria, Itaca, in seguito alla guerra di Troia, durano dieci anni. Dieci anni che per lui significano movimento, avventure, inganni sapientemente orditi per affrontare ardue sfide e anche una serie di donne con cui intrattenersi. Tutto questo può dare un po’ alla testa: d’accordo che, dopo una lunga fatica, chiunque anela a tornare a casa, ma forse per un uomo è un po’ diverso: Ulisse ha la strada spianata per vivere molto altro e non se lo vuole perdere. Ma la dea sua guida sa che i dieci anni dell’uomo non sono i dieci anni di un’altra persona, che lo attende ad Itaca: Penelope.
È curioso, tuttavia, che Minerva gli ricordi dell’esistenza della moglie in relazione al pericolo che, dopo tutto questo tempo, la donna potrebbe sposare uno degli occupanti del castello, i Proci. Come a dire: Ulisse, se non torni subito, qualcun altro si prenderà Penelope, che diventa qui oggetto da possedere. Non stupisce, certo, quest’attitudine dato che, pur essendo una donna a parlare, è presumibilmente un uomo che ne scrive le parole, il misterioso Omero.
Ed è così che, nei secoli, si è perpetuata un’immagine stereotipata del personaggio di Penelope, la donna fedele, in attesa e al servizio del suo uomo lontano, al punto da essere diventata simbolo della fedeltà coniugale, la cui astuzia, innegabile persino in un mondo patriarcale e legata all’inganno della tela (di cui parleremo a breve), la rende degna compagna dell’eroe. Ma è davvero solo questo? Non esiste una Penelope in tre dimensioni, libera dalla dipendenza maschile? È questo che cercheremo di scoprire.
Penelope – Dante Gabriel Rossetti (1869)
ALLE ORIGINI DI PENELOPE
Figlia di Icario, ex re di Sparta e nipote del mitico Perseo, e della ninfa Peribea, Penelope è segnata dalle acque del mare sin dalla sua nascita. Infatti, il padre la fece gettare nel mare perché non la desiderava (perché era una donna?), ma la piccola fu salvata da un gruppo di anatre. È forse da lì che deriva il suo nome, poiché “Pēnelópeia” (Πηνελόπεια) deriva da “pēnélops” (πηνέλοψ), che significa appunto “anatra”. E chi sono le anatre, se non simboli orientali della felicità e della fedeltà coniugale e, per lз nativз americanз, di protezione della prole, oppure, in negativo, dell’inganno e della superficialità?
Un’altra origine, in realtà, vorrebbe che derivi da “pene” (πηνη), ovvero “filo”, “trama”, “tessuto”.
In ogni caso, è segnata sin dalle origini da quel nome che si porterà dietro, accanto al quale leggeremo (quasi) sempre “moglie di Ulisse”, perché è così che, allora come ora, sappiamo considerare le donne: sempre e solo in relazione a qualche uomo della loro vita. Il che non rende per niente giustizia né a lei, né a noi che oggi, dopo tante trasformazioni sociali, continuiamo a raccogliere solo molliche di indipendenza lungo la strada (e purtroppo ogni tanto ci vengono sottratte).
ATTENDERE, VOCE DEL VERBO ESSERE DONNA
Se chiedete a unə qualsiasi studentə cosa fa Penelope nell’Odissea, la sua risposta sarà sicuramente “attende che ritorni Ulisse e tesse la tela”. Giusto, ma non basta.
Innanzitutto c’è un aspetto da considerare, propriamente umano, psicologico. Ulisse manca da Itaca da vent’anni, dieci di guerra e dieci di viaggio, un tempo lungo perché una donna, per quanto innamorata, aspetti e basta, e alimenti la propria esistenza con questa perenne attesa. Improbabile, allora, che non esista una Penelope senza Ulisse, una donna fatta e finita. Perché, uomini all’ascolto, sappiate che le donne esistono anche senza di voi e che, anche quando le limitate sistemicamente e individualmente, continuano ad avere una loro personalità e una loro vita. Sono convinta che Penelope fosse innamoratissima del suo Ulisse, che volesse vederlo ricomparire dopo così tanto tempo, che quella notte di parole e passione successiva al tanto atteso ritorno sia stata genuina e straripante di felicità, ma sono altrettanto sicura che, a un certo punto, la regina di Itaca abbia dovuto (ri)trovare una sua dimensione individuale.
Questo discorso mi tocca particolarmente. Da quando sono innamorata del mio significant other (e che peccato che in italiano non abbiamo una traduzione per questa magnifica espressione), le circostanze mi portano ad attendere ogni giorno, nelle piccole e nelle grandi cose. Eppure scrivo, leggo, insegno, mangio, dormo, piango, rido, in poche parole esisto, indipendentemente da lui e da questa attesa, anche perché non ho la certezza che si concretizzerà e non voglio perdere tempo a esistere solo in relazione a lui. L’ho fatto con altre persone in passato e so che vuol dire sentire la propria identità andare a pezzi quando chi ami se ne va, conosco le conseguenze, i pensieri che si fanno, la difficoltà di ricostruirsi e l’incertezza di non sapere bene come farlo.
In una dimensione più collettiva, mi viene in mente che ci sono mogli che aspettano a casa che i propri mariti tornino da lavoro, madri che aspettano lз loro figlз fuori da scuola, brillanti lavoratrici che aspettano il loro turno per essere promosse o ricevere il dovuto riconoscimento, vittime di violenza che aspettano che la giustizia dia loro ragione (spesso invano), donne nere che aspettano l’esaurirsi dei posti per le persone bianche per poter entrare in società, persone disabili che aspettano che la macchina parcheggiata davanti allo scivolo vada via per poter scendere dal marciapiede, persone con utero che soffrono di vulvodinia ed endometriosi che aspettano una diagnosi che – secondo le statistiche – arriva, come Ulisse, dopo dieci anni. Noi, gente marginalizzata in vari gradi e modi, che aspettiamo il nostro turno per poter avere quello che è già ampiamente garantito a chi è all’apice della piramide del privilegio – maschi, bianchi, cis, etero, non disabili, neurotipici, ecc.
Fate qualcosa, ci dicono: sì, ma cosa? C’è qualche lezione che Penelope può insegnarci in questo senso?
Penelope e i pretendenti – John Willian Waterhouse (1912)
LA TELA, L’INGANNO, L’EMANCIPAZIONE
Penelope di giorno tesseva la tela, è un dato di fatto. Di notte la disfaceva, altro dato di fatto. Non deve però sfuggire che questa famigerata tela non era nient’altro che il futuro sudario per Laerte, suo suocero: ancora una volta, Penelope al servizio degli uomini che la circondano.
Quanti uomini nella vita di questa donna! Il padre Icario, il marito Ulisse, il figlio Telemaco, il suocero Laerte, gli invasori Proci e il loro re Antinoo che desidera sposarla. E quante prove deve affrontare a causa loro! La sopravvivenza, l’attesa, il predominio, l’asservimento, l’arroganza. Se queste parole suonano familiari, è perché noi donne siamo costrette a passare per le stesse vicissitudini anche nel nostro tempo.
Dell’attesa abbiamo ampiamente parlato. Parliamo del predominio, in un sistema patriarcale che dà agli uomini il diritto di disporre delle donne come se fossero oggetti in loro possesso o, nei casi più rosei, persone senza troppo acume e in preda a emozioni ingestibili. Parliamo dell’asservimento, in un mondo dove le professioni di cura e il lavoro domestico non retribuito sono prevalentemente a carico delle donne, con conseguenze nefaste sulla loro indipendenza economica. Parliamo dell’arroganza, quella degli uomini che credono di saper fare tutto meglio delle donne, che – come ci insegna Rebecca Solnit coniando la geniale espressione mansplaining – spiegano alle controparti femminili argomenti di cui queste ultime sono più esperte, che pensano di poter prendere un “no” come reticenza e non come rifiuto definitivo.
Con tutto questo carico emotivo, è chiaro che una donna deve riprendersi i suoi spazi e il suo potere – un potere diverso da quello maschile, attenzione. La filosofa Audre Lorde ci ricorda che «gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone» e, sebbene il telaio usato da Penelope sia stato sicuramente di proprietà del marito (strumento del padrone, per l’appunto), per cui potrebbe sembrare che il suo gesto di fare e disfare la tela vada in netto conflitto con l’affermazione di Lorde, in realtà la regina di Itaca sta solo approfittando della situazione. Per dirla in altre parole, non sta usando gli strumenti del padrone, ma sta operando all’interno di quella stessa casa che lei stessa vuole distruggere, perché ormai inospitale.
Infatti, Penelope è confinata nel castello, sotto il potere del figlio Telemaco che, in quanto maschio e in assenza del padre, per la legge greca dell’epoca deve prendere il comando: ed è triste vedere come lui stesso caccia la madre nelle sue stanze, ritenendola inferiore in quanto donna. “Che posso fare, tra queste quattro mura, allora?”, si sarà chiesta.
Si è risposta con un’attività tradizionalmente femminile, la tessitura, ma non nel modo in cui ce lo si aspettava da lei. Fa di giorno e disfa di notte. Mi viene in mente una recente serie televisiva di Apple TV+, Lezioni di chimica, in cui negli anni Cinquanta la chimica Elizabeth Zott, non avendo potuto fare il dottorato e non avendo i mezzi materiali per le sue ricerche sull’abiogenesi – poiché negatile da uomini che la ritengono incapace – diventa la conduttrice di un programma di cucina (lo spazio femminile, la tradizione) in cui insegna alle donne in studio e a casa a cucinare secondo le leggi della chimica (la sovversione dei modi). Adriana Cavarero, nel saggio Nonostante Platone, analizza diverse figure della mitologia e letteratura greca, tra cui Penelope, da una prospettiva femminista.
La filosofa sottolinea come, nella filosofia greca, dominasse la scissione tra corpo e anima, obiettivo da raggiungere per poter anelare alla liberazione della seconda, costretta e tentata dal primo. Tuttavia, evidenzia come Penelope faccia esattamente il contrario grazie alla tela: infatti, è nell’unione del gesto manuale del corpo, ripetitivo, e dell’inganno ordito contro i Proci che esprime la sua sovversione, il suo potere e la sua identità. La tessitura diventa sinonimo dell’unione dell’anima e del corpo, delineando uno spazio pienamente femminile e indipendente, in cui anche l’attesa stessa di un futuro radioso diventa insignificante.
Del resto, quando Ulisse tornerà, l’attività che per anni l’ha tenuta impegnata smetterà di avere senso: questo fa paura. Fa paura perché dovrà tornare a essere “la moglie di”, cessando i panni della regina che, con la sua metis, controlla e regola il mondo patriarcale dell’isola nel silenzio.
Penelope disfa (svela) il suo lavoro di notte – Dora Wheeler Keith (1886)
“Tessere” viene dal latino “tĕxĕre”, che dà origine anche al participio passato “textus”, da cui il nostro “testo”, un contenuto fatto di parole: e cosa fa, del resto, Penelope se non scrivere la propria personale storia attraverso quella tela?
Sfogliando i libri di antologia e letteratura usati nelle scuole, non si può non notare l’assenza di voci femminili, spesso attribuita alla mancanza di scrittrici nel corso dei secoli, ma in realtà dovuta ai pregiudizi di genere di chi redige quei volumi. Se metto a tacere la voce delle donne, queste non mi daranno più fastidio, pensa l’uomo; se non inserisco scrittrici, filosofe, scienziate nei libri, le donne che li studiano non avranno esempi e rimarranno per sempre confinate nel mondo domestico, immagina il patriarca.
Se questo era fattibile fino a qualche anno fa, oggi c’è una tela molto più ampia, il web – che, guarda caso, è la traduzione di “tela” in inglese –, il quale, nonostante i suoi infiniti problemi legati ai suddetti pregiudizi, permette una maggiore diffusione e democratizzazione delle voci femminili del passato e del presente, su cui formarsi e da cui prendere gli strumenti, ancora una volta femminili, per procedere verso un futuro diverso.
Voglio, ora, porre l’attenzione su un altro aspetto della tela di Penelope, che può aiutarci a comprendere il femminismo in un’ottica intersezionale. Mentre mi ripetevo che Penelope “fa e disfa la tela”, sentivo familiare l’accostamento tra questi due verbi e mi è bastato rivolgermi alla mia libreria per incontrare il titolo incriminato: Fare e disfare il genere di Judith Butler. In questa sede, il titolo italiano rende più di quello inglese (Undoing Gender), ma la trama di parole della filosofa si ricollega perfettamente alla tela della regina.
Butler amplia i concetti espressi in Questioni di genere e afferma come il genere sia una performance continuamente rinegoziata che si manifesta nei corpi e permette di esplorare nuove possibilità, concrete e simboliche, a livello tanto individuale quanto collettivo. E no, non si tratta di quello che moltз esponenti di destra spacciano per mancanza di identità o una sua ridefinizione arbitraria in base a sensazioni passeggere, ma di un’apertura verso le ampie possibilità che l’essere corpo in un contesto ci permette.
Possiamo interpretare in questo senso il gesto di Penelope: più volte ho parlato di sovversione in precedenza – e infatti il corpo della regina si sottrae al potere biopolitico esercitato su di lei in quanto donna grazie all’azione di disfare la tela, insomma non è più la donna che ci si aspetta che sia, non si adegua più a quel ruolo che la società le impone. Si badi bene che non si tratta di un misconoscimento della propria identità, ma anzi di un vero e proprio riconoscimento di sé, di una conoscenza del proprio essere donna profonda a tal punto che è possibile “giocarci”, cambiarlo, agendo a proprio favore. Penelope diventa così il soggetto eccentrico definito da Teresa de Lauretis, ma anche il soggetto nomade teorizzato da Rosi Braidotti per il fatto che è proprio nella sua creatività, lontana dalle norme tradizionali e basata sulla reminiscenza della sottomissione femminile, che colloca il riconoscimento della differenza sessuale per affermarsi.
SOLA MAI: PENELOPE E LE ALTRE DONNE
La figura di Penelope ha destato molto interesse nelle scrittrici, soprattutto di recente, che ne hanno rielaborato la storia dandole voce, mettendosi dalla sua prospettiva: è il caso, ad esempio, di Margaret Atwood e del suo Il canto di Penelope (The Penelopiad). La scrittrice canadese ripercorre la vita di Penelope immedesimandosi in lei, ma interrompendo talvolta la narrazione assumendo il punto di vista delle dodici schiave sottoforma di fantasmi che, tramite varie tipologie testuali, forniscono la loro versione della storia, alcune volte contraddicendo quella della protagonista.
Le ancelle che circondano Penelope permettono l’avvio di diverse riflessioni, evidenziando anche le controversie della posizione della regina.
È vero, infatti, che Penelope non tesse la sua tela da sola, ma circondata dalle sue servitrici. Cosa si saranno dette? La domanda sorge spontanea. Quella stanza misteriosa e proibita agli uomini diventa allora precorritrice dei gruppi di autocoscienza femminista degli anni Settanta, in cui le donne condividevano i propri vissuti e si scambiavano informazioni sul corpo e la sessualità che permisero di mettere in discussione il ruolo della donna nella società, anche alla luce delle rivolte del Sessantotto, e comprendere che le proprie esperienze individuali non erano casi isolati, ma fatti concreti attuati dal sistema patriarcale sul corpo femminile a suo discapito. E sappiamo quanto la dimensione collettiva può essere importante: mi viene in mente l’iniziativa di Carolina Capria (@lhascrittounafemmina), che, ogni domenica, pubblica nelle stories di Instagram le testimonianze delle sue follower che hanno subito violenza patriarcale di qualsiasi tipo. Una valanga di messaggi che aiutano chi legge a sentirsi meno sola, ma anche più arrabbiata: è così che vogliamo andare avanti? “Non andate in pace”, conclude Capria alla fine della carrellata di messaggi, e forse Penelope meditava le stesse parole, arrabbiata com’era per la spregiudicatezza dei Proci e l’arroganza del figlio Telemaco.
Basta, tuttavia, indossare le lenti del femminismo intersezionale per capire che quelle ancelle condividevano sì con lei l’esperienza del genere, ma non quella di classe: erano pur sempre sue serve, serve di una regina. Avrebbe mai potuto comprenderle fino in fondo? La sua liberazione sarebbe coincisa con o bastata per loro? Forse le ancelle facevano loro una frase che bell hooks avrebbe usato secoli dopo come titolo di uno dei suoi saggi più noti, e cioè: “Non sono una donna, io?”. Anche se quest’ultima si riferiva al rapporto tra sessismo e razzismo, due discriminazioni che viveva in prima persona, è innegabile che spesso, quando si parla di donne o si portano avanti le “istanze femminili”, si fa riferimento solo alle donne bianche e di un certo livello sociale. Questo era il grande problema del femminismo della seconda ondata, nonostante i suoi numerosi meriti, e lo è ancora oggi se non ci si rivolge al concetto di intersezionalità.
Inoltre, che le ancelle contraddicessero in parte la versione di Penelope, non deve farci storcere il naso o pensare che il femminismo non serve: essere donna non coincide con essere femminista. Ogni donna subisce le discriminazioni di natura sessista, anche se in modi e gradi differenti, ma è il salto verso la consapevolezza, la rabbia, l’urgenza di agire che permette lo sviluppo della piena coscienza femminista, che è sempre un viaggio (non come quello di Ulisse).
E poi essere femministe non significa essere necessariamente d’accordo con le altre donne e compagne, anzi: se la dissidenza può farci crescere individualmente, trovare gli errori che commettiamo, migliorare come persone, allora va accolta e ricercata.
Penelope – Francis Sydney Muschamp (1891)
Del resto, anche Penelope aveva i suoi dissapori con le altre donne, in particolare con una: sua cugina Elena, proprio quella Elena a cui si attribuisce lo scatenarsi della guerra di Troia. Metafora del tradimento e icona di infedeltà coniugale, bellezza e seduzione, la regina di Sparta sembrerebbe agli antipodi della cugina, così silenziosa e morigerata. Ma abbiamo visto finora come Penelope sia tale solo in apparenza, e allora non possiamo che dedurre che queste figure siano state messe in antitesi dagli stessi uomini che le condannavano e al contempo le desideravano.
Elena fugge con Paride: e se Penelope avesse deciso di sposare Antinoo? Penelope si ritrova con Ulisse: e se Elena avesse deciso di non tornare con Menelao, né con Paride, e invece sposare un altro uomo o bastare a sé stessa? Forse non avremmo l’Iliade o l’Odissea, ma appunto, guardiamo il problema da un’ottica più ampia: entrambe le opere si nutrono di azioni che gli uomini attribuiscono alle donne arbitrariamente, di stereotipi in cui le incanalano costringendole a seguire dei ruoli specifici che stanno loro stretti e lo sbaglio è sempre dietro l’angolo, qualsiasi cosa facciano.
Eccola spuntare, allora, la competitività femminile, mezzo di cui il patriarcato si serve per continuare a esercitare il suo potere e distrarre le donne dai loro desideri e obiettivi e dalla fonte reale della loro oppressione. Già solo il fatto che critici letterari di ogni epoca si siano preoccupati di mettere a confronto queste due figure e di sottolineare, anche nei libri di testo scolastici, che Elena è la causa della guerra di Troia, mentre Penelope è la moglie fedele che attende il marito senza cedere ad alcun pretendente, ci aiuta a comprendere la dimensione del problema. E ripeto, non significa che Penelope fosse d’accordo con le azioni di Elena e viceversa, ma il sessismo sistemico le ha condannate entrambe e ha attribuito loro caratteri fin troppo stereotipati che non rendono giustizia della loro tridimensionalità, caratteristica invece necessaria e presente per gli eroi maschili di queste storie.
Ancora oggi, i posti riservati alle donne nei programmi televisivi (anche quando si parla di argomenti come aborto o violenza di genere) o nei consigli di amministrazione sono pochi e si ha l’impressione che ci vengano concessi: questo comporta non solo la perdita di agency femminile, ma anche la competizione tra le donne, costrette ad agire a discapito delle compagne per prendersi lo spazio che dovrebbe esser loro garantito in quanto esseri umani.
DELL’AMORE SECONDO PENELOPE
Per scrivere questo pezzo, sono andata a rileggere il brano dell’Odissea in cui Penelope riconosce Ulisse una volta tornato a Itaca – gentilmente agevolatomi da una donna che stimo e apprezzo tanto, una mia allieva che studia al liceo classico. È noto che, mentre la nutrice Euriclea (quanti uomini, ma anche quante donne in questa storia!) riconosce l’uomo che ha cresciuto da una cicatrice, Penelope non crede che quello che si spaccia per un mendicante possa essere il marito ritornato. Come biasimarla? Dopo così tanto tempo, chiunque sarebbe incredulə, perciò il suo smarrimento e la sua riluttanza non devono sorprendere.
Penelope, sorda anche ai rimproveri di Telemaco, ha bisogno di prove, perciò ordina a Euriclea di portare il letto nuziale fuori dalla stanza per prepararlo. Si tratta di un trucco: infatti, solo lei, Ulisse e un’altra ancella sanno che l’uomo ha intagliato il talamo in un tronco che cresceva proprio in quel punto della casa, pertanto è impossibile da spostare. Ed è solo quando l’uomo che si ritrova davanti spiega l’impossibilità di svolgere tale compito e racconta come ha realizzato il letto che la donna scioglie ogni suo dubbio e non solo, le «si sciolsero le ginocchia ed il cuore».
Quel gesto, che nell’opera cristiana per antonomasia, la Bibbia, sarà oggetto di condanna morale per Tommaso da parte di Gesù, qui diventa necessità per Penelope: ha bisogno di vedere, mettere alla prova, la credenza e il riconoscimento non possono essere ciechi dopo tanto soffrire.
Ulisse e Penelope – Antonio Lacquaniti
Riconoscimento è la parola chiave. Il filosofo Byung Chul Han sostiene che, poiché si investono le energie più profonde nella propria soggettività, si perde la capacità di comprendere i confini tra sé e l’Altrə; quest’Altrə diventa solo uno specchio in cui rivedersi e perciò diviene impossibile riconoscerne l’alterità, e ciò fa sì che l’Altrə non venga amato, ma consumato. Invece, chi ama vive un contemporaneo indebolimento del sé e un sentimento di potenza, che diventano motivo di crescita, perché si sperimenta l’alterità.
Penelope ama Ulisse e ha bisogno di riconoscere in lui l’Altro che è oggetto di questo amore, ma il riconoscimento richiede tempo e attenzione, è un processo continuo. A questo punto, per lз due sposз, riconoscersi significa accettare il cambiamento altrui, inevitabile dopo tutto il tempo trascorso lontanз.
Quante persone cessano di riconoscere lə propriə partner perché non accettano che cambi col tempo e che anche loro stesse cambiano? In quante relazioni si lavora attivamente sulla propria, altrui e congiunta trasformazione e comunicazione? Quanto diamo per scontati gesti e parole tipici dell’amore romantico e quante volte li reiteriamo anche se svuotati di senso?
Un ultimo aspetto che mi preme sottolineare è proprio che Penelope ama Ulisse. Sembra banale e didascalico ripeterlo, ma lo ama. Lo ripeto più a me stessa che a chi mi legge.
Rileggendo questo passo dell’Odissea durante i miei primi momenti di consapevolezza femminista, tutta orientata all’empowerment e allo sminuimento dell’amore, rimasi quasi delusa dal fatto che Penelope accettasse di nuovo Ulisse. Ma come – mi chiedevo –, questo se ne va per tanti anni lontano, lasciandola sola, poi torna e lei lo accoglie come se niente fosse? Perché non lo caccia? Perché non gli dice che non lo ama o che è arrabbiata con lui? Ripercorrendo i versi omerici oggi, invece, mi rendo conto innanzitutto di saltare mentalmente il momento della prova, e in un secondo momento che amare non è negativo, anzi: amare ci permette di compiere un percorso di consapevolezza interiore che integra anche gli aspetti altrui, che apre a nuove prospettive, di sperimentare una forza misteriosa e inspiegabile che ci orienta fuori da noi. Lasciarsi andare all’amore, come fa Penelope in quel momento e nella notte successiva, è un atto di generosità in primis verso noi stessз, è uno scioglimento dalle catene attuali della performance a ogni costo, è una liberazione.
Piuttosto, se questo ci sembra impossibile, proviamo a rivedere il nostro modo di amare, le imposizioni che ci vengono calate dall’alto, le aspettative che noi stessз abbiamo su di noi. Pensiamo all’amore eterosessuale come una delle tante possibilità tra le tante, creiamo i nostri propri rituali amorosi, basiamo le relazioni sulla comunicazione e l’ascolto reciproci: proviamo a sperimentare il dolce abbandono che significa amare, vedersi nudi – non solo fisicamente – tra le braccia dell’altra persona, sentire che la propria vulnerabilità è al sicuro. E so bene che le relazioni che intratteniamo nel sistema patriarcale portano con sé i germi del sessismo e troppo spesso questo abbandono è ripagato con la violenza, talvolta pure con la morte.
Allora ripensiamoci come esseri amorosi, che agiscono nell’ambito delle possibilità individuali e nel frattempo combattiamo per un mondo più equo sotto ogni punto di vista, denunciando le storture attuali: proviamo, insomma, a essere come Penelope.
Penelope, woman of yesterday, woman of today
Written by Roberta
Translated by Veronica Fanzio
“So spoke the first Minerva:
(Homer, Odyssey, book XIII, vv. 438-446)
it is necessary to consider, O son of Laertes, how
to lay hands on those arrogant suitors,
who reign in your home; today is the third year,
and with rich gifts they vie for the coveted marriage
to your wife. She, always sighing for your return,
nurtures each one with hope and promises,
sending messages to all, yet harboring other thoughts within.“
Minerva, the goddess of wisdom and protector of the exiled Odysseus, reproaches the man about the happenings of his household. The story is well-known: the wanderings of the protagonist of the Homeric poem to return to his homeland, Ithaca, after the Trojan War, last for ten years. Ten years which for him mean movement, adventures, cleverly woven deceits to face arduous challenges, and a series of women with whom to entertain. All of this can get to someone’s head: it’s agreeable that, after a long struggle, anyone longs to return home, but perhaps for a man it’s a bit different: Odysseus has a clear road to live much more and he doesn’t want to miss it out. But his guiding goddess knows that his ten years are not the same as the ten years of another person, waiting for him at Ithaca: Penelope.
It’s curious, however, that Minerva reminds him of his wife’s existence in relation to the danger that, after all this time, the woman might marry one of the castle’s occupants, the Suitors. As if to say: Odysseus, if you don’t return soon, someone else will take Penelope, who becomes here an object to possess. This attitude is not surprising, of course, given that even though it’s a woman speaking, it’s presumably a man writing the words, the mysterious Homer.
And that’s how, over the centuries, a stereotyped image of Penelope’s character has been perpetuated, the faithful woman waiting, at the service of her distant man, to the point of becoming a symbol of marital fidelity. Her cunning, undeniable even in a patriarchal world and linked to the deception of the loom (which we will discuss shortly), makes her a worthy companion to the hero. But is this really all there is for her? Isn’t there a three-dimensional Penelope, free from male dependence? That’s what we’ll attempt to discover.
Penelope – Dante Gabriel Rossetti (1869)
AT THE ORIGINS OF PENELOPE
Daughter of Icarius, former king of Sparta, and granddaughter of the mythical Perseus, and the nymph Periboea, Penelope is marked by the waters of the sea from her birth. In fact, her father cast her into the sea because he didn’t desire her (because she was a woman?), but the baby was saved by a group of ducks. It is perhaps from there that her name derives, as “Pēnelópeia” (Πηνελόπεια) comes from “pēnélops” (πηνέλοψ), which precisely means “duck”. And who are ducks, if not Eastern symbols of happiness and marital fidelity, and for Native Americans, protectors of offspring, or, negatively, of deceit and superficiality?
Another origin, in reality, would have it derive from “pene” (πηνη), meaning “thread”, “weave”, or “fabric”.
In any case, she is marked from the origins by that name she will carry with her, alongside which we will (almost) always read “wife of Odysseus”, because that’s then as now, how we know to consider women: always and only in relation to some man in their life. This does no justice at all to her, nor to us who today, after so many social transformations, continue to gather only crumbs of independence along the way (which, unfortunately, are sometimes taken away from us).
WAITING, A WOMAN’S EXPERIENCE
If you ask any student what Penelope does in the Odyssey, their answer will surely be “she waits for Odysseus to return and weaves the cloth.” Correct, but not sufficient.
Firstly, there is a human, psychological aspect to consider. Odysseus has been absent from Ithaca for twenty years, ten of war and ten of journey—a long time for a woman, no matter how in love, to simply wait and sustain her existence solely through this perpetual anticipation. It’s improbable, then, that there isn’t a Penelope without Odysseus, a woman complete in herself. Because men, be aware that women exist even without you, and even when you systemically and individually limit them, they continue to have their own personality and life. I am convinced that Penelope was deeply in love with her Odysseus, that she wanted to see him reappear after so much time, that the night of words and passion following his long-awaited return was genuine and overflowing with happiness, but I am just as sure that at some point, the queen of Ithaca had to (re)discover her own individual dimension.
This discussion is particularly touching to me. Since I fell in love with my significant other, circumstances lead me to wait every day, in small and large matters. Yet I write, read, teach, eat, sleep, cry, laugh—in short, I exist—regardless of him and this waiting, also because I don’t have the certainty that it will materialize, and I don’t want to waste time existing solely in relation to him. I have done that with others in the past, and I know what it means to feel one’s identity crumble when the one you love leaves, I know the consequences, the arising thoughts, the difficulty of rebuilding oneself and the doubt of not knowing how to do it well.
In a more collective dimension, I think of wives waiting at home for their husbands to return from work, mothers waiting for their children outside of school, brilliant workers waiting for their turn to be promoted or receive due recognition, victims of violence waiting for justice to be served (often in vain), Black women waiting for white people’s spaces to fill up to enter in society, disabled individuals waiting for the car parked in front of the ramp to leave so they can get off the sidewalk, individuals with uteruses suffering from vulvodynia and endometriosis waiting for a diagnosis that—according to statistics—arrives, just like Odysseus, after ten years. We, people marginalized in various degrees and ways, waiting for our turn to have what is already widely guaranteed to those at the apex of the privilege pyramid—males, whites, cisgender, heterosexuals, non-disabled, neurotypical, etc.
They tell us to “do something”: yes, but what? Is there a lesson that Penelope can teach us in this regard?
Penelope e i pretendenti – John Willian Waterhouse (1912)
THE CLOTH, THE DECEIVE, EMANCIPATION
Penelope wove the cloth during the day, that’s a fact. At night, she unraveled it, another fact. It should not go overlooked that this infamous cloth was nothing more than the future shroud for Laertes, her father-in-law: once again, Penelope at the service of the men surrounding her.
How many men in this woman’s life! Her father Icarius, her husband Odysseus, her son Telemachus, her father-in-law Laertes, the invading Suitors, and their king Antinous who desires to marry her. And how many trials she must face because of them! Survival, waiting, dominance, subservience, arrogance. If these words sound familiar, it’s because women are forced to go through the same troubles even in our time.
About waiting, we have extensively discussed. Let’s talk about predominance, in a patriarchal system that grants men the right to dispose of women as if they were possessions or, in more optimistic cases, individuals lacking intelligence and subdued to uncontrollable emotions. Let’s talk about subservience, in a world where caregiving professions and unpaid domestic labor predominantly fall on women, with disastrous consequences for their economic independence. Let’s talk about arrogance, the arrogance of men who believe they can do everything better than women, who— as Rebecca Solnit teaches us with the brilliant term “mansplaining”— explain to female counterparts topics of which the latter are more knowledgeable, who think they can take a “no” as hesitation rather than a definitive refusal.
With all this emotional baggage, it’s clear that a woman must reclaim her spaces and her power— beware, a different power from that of men. Philosopher Audre Lorde reminds us that “the master’s tools will never dismantle the master’s house,” and although the loom used by Penelope was surely her husband’s property (the master’s tool, indeed), which might seem in conflict with Lorde’s assertion, in reality, the queen of Ithaca is simply taking advantage of the situation. In other words, she isn’t using the master’s tools but is operating within that same house that she herself wants to destroy, because it has become inhospitable.
In fact, Penelope is confined within the castle, under the power of her son Telemachus who, as a male and in the absence of his father, must take command, according to the Greek law of the time: and it is sad to see how he dismisses his mother to her rooms, deeming her inferior as a woman. “What can I do within these four walls, then?” she must have wondered.
She answered herself with a traditionally feminine activity, weaving, but not in the way we expected from her. She does by day and undoes by night. This brings to mind a recent Apple TV+ series, “Lessons in Chemistry,” where in the 1950s chemist Elizabeth Zott, unable to pursue a doctorate and lacking the material means for her abiogenesis research—because men deemed her incapable—becomes the host of a cooking show (the female space, tradition) where she teaches women in the studio and at home to cook according to the laws of chemistry (subverting modalities).
Adriana Cavarero, in her essay “Despite Plato,” analyzes various figures from Greek mythology and literature, including Penelope, from a feminist perspective.
The philosopher highlights how, in Greek philosophy, the split between body and soul dominated, an objective to aspire to in order to attain the liberation of the latter, constrained and tempted by the former. However, she points out how Penelope does exactly the opposite thanks to the loom: in fact, it is in the union of the manual, repetitive bodily gesture and the deceit woven against the Suitors that she expresses her subversion, her power, and her identity. Weaving becomes synonymous with the union of soul and body, delineating a space that is fully feminine and independent, where even the anticipation of a radiant future becomes insignificant.
After all, when Odysseus returns, the activity that has kept her occupied for years will cease to make sense: this is frightening. It is frightening because she will have to return to being “the wife of,” abandoning the role of queen who, with her metis, silently controls and regulates the patriarchal world of the island.
Penelope disfa (svela) il suo lavoro di notte – Dora Wheeler Keith (1886)
“Tessere” (italian translation of ‘to weave’) comes from the Latin “tĕxĕre,” which also gives rise to the past participle “textus,” from which our word “text” derives—a content made of words: and what does Penelope do if not write her own personal story through that cloth?
Flipping through anthologies and literature textbooks used in schools, one cannot help but notice the absence of female voices, often attributed to the lack of female writers over the centuries, but actually due to the gender biases of those compiling those volumes. If I silence women’s voices, they will no longer bother me, thinks the man; if I do not include female writers, philosophers, scientists in books, the women who study them will forever remain confined to the domestic world, imagines the patriarch.
While this may have been feasible until a few years ago, today there is a much broader canvas, the web that, despite its infinite problems related to the aforementioned biases, allows for greater dissemination and democratization of female voices from the past and present, upon which to educate ourselves and from which to draw tools, once again feminine, to proceed towards a different future.
Now, I want to focus on another aspect of Penelope’s cloth, which can help us understand feminism from an intersectional perspective. While repeating to myself that Penelope “does and undoes the cloth,” the juxtaposition of these two verbs felt familiar, and it was enough to turn to my bookshelf to encounter the incriminated title: “Undoing Gender” by Judith Butler. The web of words woven by the philosopher perfectly connects to the queen’s cloth.
Butler expands on the concepts expressed in “Gender Trouble” and asserts that gender is a continually renegotiated performance manifested in bodies, allowing exploration of new possibilities, both concrete and symbolic, on both an individual and collective level. And no, it’s not what many right-wing figures peddle as a lack of identity or its arbitrary redefinition based on passing sensations, but rather an openness to the broad possibilities that embodying a body in a context allows.
We can interpret Penelope’s gesture in this sense: I have spoken many times of subversion before—indeed, the queen’s body resists the biopolitical power exerted over her as a woman through the action of undoing the cloth, in short, she is no longer the woman society expects her to be, she no longer conforms to that role society imposed on her. It should be noted that this is not a misunderstanding of her own identity, but rather a true recognition of herself, a deep knowledge of her being a woman to such an extent that she can “play with it,” change it, acting in her own favor. Penelope thus becomes the eccentric subject defined by Teresa de Lauretis, but also the nomadic subject theorized by Rosi Braidotti, because it is precisely in her creativity, distant from traditional norms based on reminiscence of female submission, that she collocates the recognition of sexual difference to affirm herself.
NEVER ALONE: PENELOPE AND OTHER WOMEN
The character of Penelope has sparked much interest among female writers who, especially recently, have reworked her story, giving her voice, adopting her perspective: this is the case, for instance, of Margaret Atwood and her “The Penelopiad.” The Canadian writer retraces Penelope’s life by identifying with her, but occasionally interrupts the narration by adopting the viewpoint of twelve women slaves in a ghostly form who, through various textual forms, provide their version of the story, sometimes contradicting that of the protagonist.
The handmaids surrounding Penelope allow for various reflections, while also highlighting the controversies of the queen’s position.
It is true, indeed, that Penelope didn’t weave her cloth alone, but surrounded by her servants. What might they have told to each other? The question comes spontaneously. That room, mysterious and forbidden to men, thus becomes a precursor to the feminist consciousness-raising groups of the seventies, in which women shared their experiences and exchanged information about their bodies and sexuality, leading to a questioning of women’s role in society, also in light of the upheavals of ’68, and understanding that their individual experiences were not isolated cases, but concrete acts carried out by the patriarchal system to the detriment of the female body. And we know how important the collective dimension can be: I think of Carolina Capria‘s initiative (@lhascrittounafemmina), who, every Sunday, posts her followers’ testimonies of experiencing patriarchal violence of any kind on her Instagram stories. An avalanche of messages that helps the reader feel less alone, but also angrier: is this how we want to move forward? “Don’t go in peace,” Capria concludes at the end of the flow of messages, and perhaps Penelope meditated on the same words, angry as she was at the audacity of the Suitors and the arrogance of her son Telemachus.
However, it is not enough to wear the lens of intersectional feminism to understand that these handmaids shared their gender experience with her, but not the class one: they were still her servants, servants of a queen. Could she ever fully understand them? Would her liberation coincide with or be enough for them? Perhaps the handmaids were saying to themselves a phrase that bell hooks would use centuries later as the title of one of her most famous essays: “Ain’t I a Woman?”. Although this latter referred to the relationship between sexism and racism, two discriminations she experienced firsthand, it’s undeniable that often, when talking about women or advancing “feminine issues,” reference is made only to white women and of a certain social class. This was the great problem of second-wave feminism, despite its numerous merits, and is still today if one doesn’t turn to the concept of intersectionality.
Furthermore, the fact that the handmaids partly contradicted Penelope’s version should not make us frown or think that feminism is unnecessary: being a woman doesn’t automatically mean being a feminist. Every woman endures sexist discriminations, though in different ways and degrees, but it’s the leap towards awareness, anger, and the urgency to act that allows for the development of a full feminist consciousness, and that’s a continuous journey (unlike Odysseus’).
Also, being a feminist doesn’t necessarily mean agreeing with other women and comrades; actually, if dissent can help us grow individually, find the mistakes we make, and improve as individuals, it should be welcomed and sought after.
Penelope – Francis Sydney Muschamp (1891)
Moreover, Penelope herself had disagreements with other women, particularly with one: her cousin Helen, that very Helen attributed to triggering the Trojan War. A metaphor for betrayal and an icon of marital infidelity, beauty, and seduction, the Queen of Sparta seems to be the opposite of her cousin, so silent and modest. But as we have seen so far, Penelope only appears as such, and thus we can only presume that these figures were placed in antithesis by the very men who condemned them while also desiring them.
Helen runs away with Paris: what if Penelope had decided to marry Antinous? Penelope finds herself with Odysseus: what if Helen had decided not to return with Menelaus nor Paris and instead marry another man or rely on herself? Perhaps we wouldn’t have the Iliad or the Odyssey, but let’s look at the matter from a broader perspective: both works nurtured themselves on actions arbitrarily attributed to women by men, on stereotypes that confine them to specific roles that don’t fit them, with the risk of error lurking around every corner, whatever they do.
Here so emerges female competitiveness, a tool that patriarchy uses to continue exercising its power and distract women from their desires, goals, and the true source of their oppression. Just the fact that literary critics of every era have been concerned with comparing these two figures and highlighting, even in school textbooks, that Helen is the cause of the Trojan War while Penelope is the faithful wife who waits for her husband without yielding to any suitor, helps us understand the magnitude of the problem. This doesn’t mean that Penelope agreed with Helen’s actions and vice versa, but systemic sexism condemned them both and attributed to them overly stereotypical characters that do not do justice to their three-dimensionality, a necessary characteristic for the male heroes of these stories.
Even today, the spots reserved for women on television programs (even when discussing topics like abortion or gender violence) or in boardrooms are few, and it feels like they are granted to us: this not only leads to the loss of female agency but also to competition among women, forced to act at the expense of their peers to claim the space that should be guaranteed to them as human beings.
ON LOVE ACCORDING TO PENELOPE
To write this piece, I went back to reread the passage from the Odyssey where Penelope recognizes Odysseus once he returns to Ithaca – kindly facilitated by a woman whom I greatly respect and appreciate, one of my students studying at the classical lyceum. It’s known that while the nurse Euryclea (how many men, but also how many women in this story!) recognizes the man she raised by a scar, Penelope does not believe that the man posing as a beggar could be her returned husband. Who can blame her? After so long, anyone would be incredulous; therefore, her confusion and reluctance should not surprise the reader.
Penelope, deaf even to Telemachus’s reproaches, needs proof, so she orders Euryclea to bring the bridal bed out of the room to prepare it. It’s a trick: in fact, only she, Odysseus, and another handmaid know that the bed was carved from a tree trunk that grew right there in the house, so it’s impossible to move. And it’s only when the man standing before her explains the impossibility of performing this task and recounts how he made the bed that the woman dissolves all her doubts and not only that, her “knees and heart melted.”
That gesture, which in the Christian work par excellence, the Bible, will be subject to moral condemnation to Thomas from Jesus, here becomes a necessity for Penelope: she needs to see, to test, belief and recognition cannot be blind after so much suffering.
Ulysses and Penelope – Antonio Lacquaniti
Recognition is the keyword. The philosopher Byung Chul Han argues that, as one invests deeper energies into their own subjectivity, they lose the ability to understand the boundaries between oneself and the Other; this Other becomes merely a mirror in which to see oneself, thus making it impossible to recognize their alterity, leading the Other to be not loved, but consumed. Instead, those who love experience a simultaneous weakening of the self and a sense of empowerment, which becomes a motive for growth because they experience alterity.
Penelope loves Ulysses and needs to recognize in him the Other who is the object of this love, but recognition takes time and attention; it is an ongoing process. At this point, for the two spouses, recognition means accepting each other’s inevitable changes after all the time spent apart.
How many people cease to recognize their own partners because they do not accept that they change over time and that they themselves also change? In how many relationships do we actively work on our own, others’, and joint transformation and communication? How often do we take for granted gestures and words typical of romantic love, and how many times do we repeat them even if they are emptied of meaning?
One last aspect I want to emphasize is that Penelope loves Ulysses. It seems banal and didactic to repeat it, but she loves him.
Reading again this passage of the Odyssey during my early feminist awareness, oriented toward empowerment and the diminishment of love, I was almost disappointed that Penelope accepted Ulysses back. But how – I wondered – could he leave for so many years, leaving her alone, then return and she welcomes him as if nothing had happened? Why doesn’t she send him away? Why doesn’t she tell him she doesn’t love him or that she’s angry with him? Reflecting on Homer’s verses today, however, I realize first that I mentally skip over the moment of the test, and secondly that loving is not negative; on the contrary, loving allows us to undertake a journey of inner awareness that also integrates others’ aspects, opening us up to new perspectives, to experiencing a mysterious and inexplicable force that guides us beyond ourselves. Surrendering to love, as Penelope does in that moment and the following night, is an act of generosity primarily towards herself; it is a release from the current chains of performance at any cost; it is liberation.
Instead, if this seems impossible to us, let’s try to rethink how we love, the impositions imposed upon us from above, the expectations we have of ourselves. Let’s consider heterosexual love as one of many possibilities, let’s create our own love rituals, let’s base relationships on mutual communication and listening: let’s try to experience the sweet abandonment that means loving, seeing ourselves naked – not just physically – in the arms of another person, feeling that our vulnerability is safe. And I am well aware that the relationships we maintain within the patriarchal system carry the seeds of sexism and all too often this abandonment is repaid with violence, sometimes even with death.
So let’s rethink ourselves as loving beings, acting within individual possibilities and meanwhile fighting for a fairer world from every point of view, denouncing current injustices: let’s try, in short, to be like Penelope.
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