da Zula

CAPTION: Il colonialismo ha influenzato le vite di molt3 italian3: ha delineato ricordi, aneddoti famigliari, percezioni dell’altro, presunte conoscenze e pregiudizi. 

Questa storia spesso taciuta ha bisogno di integrazioni, punti di vista e nuove voci per essere narrata. 

TW: colonialismo, stupro, violenza

MEMORIE NEGATE  – LA VIOLENZA DEL SISTEMA COLONIA HA BISOGNO DI NUOVE VOCI PER ESSERE NARRATA

La storia coloniale italiana fa parte di un capitolo “chiuso” relativamente di recente: ancora vivono persone più o meno anziane, nate in posti in cui solo per essere italiane e bianche si era a pieno titolo esseri superiori, anche per legge. Benché il manifesto della razza e le leggi razziali siano entrate in vigore  in Italia solo nel 1938 – riducendo in briciole le vite di ebre3, romanì, comunità LGBTQIA+, persone con disabilità e non solo –  già nei decenni precedenti la vita in colonia, impostata secondo le esigenze di una minoranza di “eletti” bianchi e di una maggioranza di persone ridotte in schiavitù, sottomesse e nere, fu laboratorio di politiche razziali, economiche e sessuali che vennero in seguito attuate nell’Italia fascista, ma ampiamente sperimentate già precedentemente nel Corno d’Africa, specialmente in Eritrea, territorio occupato per più tempo dalla nazione italiana, la colonia primogenita, primo tassello di un progetto più grande. 

La visione esotizzante delle terre africane, narrate come libere, calde e fertili animò l’immaginario della  gioventù maschile italiana, entusiasta all’idea di partire alla conquista della terra e delle selv**ge donne native – così simili a quella terra che il discorso nazionalistico  propagandava da molto prima della marcia su Roma e della campagna d’Etiopia degli anni Trenta, a masse contadine di fatto affamate e agognanti una vita diversa, in cui poter finalmente vincere sulla storia e su qualcun3 altr3.

Queste storie – che non si limitano al continente africano – non sono mai state analizzate criticamente o con l’intento  di costruirne una memoria collettiva e inclusiva delle varie esperienze che l’hanno caratterizzata e influenzata. È vero che ambito accademico le ricerche in merito hanno iniziato ad aumentare, anche in Italia, ma la diffusione resta marginale e il dibattito che ne potrebbe scaturire rimane relegato a nicchie di persone interessate per curiosità personale o a corsi prevalentemente opzionali di qualche università umanistica. Nei rari sprazzi di dibattito in spazi meno di nicchia, l’idea autoassolutoria degli “italiani brava gente” e il rimpianto per le terre perdute sono ancora maggioritarie, a discapito  di teorie ed esperienze postcoloniali. 

Manifesto di Corrado Mancioli. 1943.

NAZIONI BIANCHE, TERRE NERE

La mappa squadrata dei confini interni dei paesi africani è una traccia  evidente di come le potenze europee abbiano spartito un territorio a loro alieno seguendo mere logiche di profitto e  potere, smembrando popoli e depredando risorse. 

Alla spartizione del grande bottino – la terra africana – parteciparono tutte le potenze europee, che nell’Ottocento erano stati nazionali ormai consolidati e con basi, avamposti e regimi coloniali installati in tutto il mondo, da cui traevano enormi benefici economici, che reimpiegavano anche nel proseguimento delle invasioni e nella stabilizzazione dei territori occupati, così da  potenziare il prestigio nazionale e internazionale con cui reclamare più terre, più diritti e più potere. 

Italia e Germania, unitesi tardivamente allo Scramble for Africa, recuperarono facilmente il tempo perso; la Germania tentò di costituire il terzo impero coloniale europeo per estensione e sperimentò nuove tecnologie nel compimento del primo genocidio del Novecento, quello delle popolazioni Herero in Namibia, esperienza propedeutica senza la quale il Terzo Reich non sarebbe stato così efficiente nel creare quell’ingranaggio perfetto di morte che sono stati i lager nazisti. Le “briciole e la sabbia” furono lasciate a chi rimaneva, ovvero l’Italia, che doveva dimostrare di poter sedere allo stesso tavolo dei  “grandi”. 

Con l’affermazione del principio di nazionalità e il compimento delle aspirazioni nazionaliste nella costituzione degli stati moderni nasce anche la necessità di difendersi da tutto ciò che impedisce lo sviluppo e il potenziamento della nazione. 

La ricerca di legittimazione passa attraverso l’uso della forza, con il tentativo – spesso riuscito – di sottomettere popoli che hanno organizzazioni socioeconomiche, culture e tecnologie differenti o meno efficaci, specie nello sviluppo degli armamenti e della difesa: queste differenze sono utilizzate per giustificare le aspirazioni razziste e predatorie a partire dall’inizio del grande assalto all’Africa (Scramble for Africa) fino ad arrivare alle azioni neo-colonialiste e imperialiste che ancora oggi fanno parte delle agende di grandi corporation economiche, stati occidentali e “nuovi” attori internazionali come Cina, India ed Emirati Arabi.

L’Italia raggiunge l’unità nel 1861 e con la costituzione e la stabilizzazione dello stato inizia ad ambire al potenziamento: infatti, già nel 1896, dodici anni dopo la Conferenza di Berlino – che fornisce una prima sanzione alla spartizione dell’Africa, codificando i regolamenti a venire e stabilendo il principio di legittima occupazione – che definiva “colonia” un territorio effettivamente controllato – lasciando dunque spazio a molte possibilità di scontro, l’Italia tenta le prime incursioni. Il continente ormai completamente invaso e segmentato, aspettava solo di essere marcato da un’altra bandierina europea nei pochi spazi liberi da invasori rimasti: unico enorme lembo di terra senza nessun controllo straniero (né diretto né indiretto) era l’impero Etiopico e l’Italia credeva di non dover chiedere a nessuno il permesso di potersene impossessare. 

Il governo liberale italiano guidato da Crispi aveva già tentato una penetrazione territoriale, con delle azioni offensive che nel 1889 portarono alla stipula dei trattati di Ucciali, redatti in italiano e amarico: la versione italiana però attribuiva al Regno d’Italia una sorta di protettorato sul paese, un’ambiguità che venne alla luce nel 1895 e convinse l’Italia a un tentativo di aggressione diretta attaccando dalla vicina Eritrea, ormai già occupata. 

L’esercito etiopico in questa occasione sconfisse le truppe italiane in quella che è passata alla storia come la battaglia di Adwa, nel 1896, avvenuta solo quindici anni dopo la proclamazione di Roma capitale del Regno d’Italia. La sconfitta distrusse le ambizioni coloniali italiane di stabilire un’enclave in Etiopia – un evento con pochi precedenti nella storia coloniale europea e che ebbe immediate ripercussioni in Italia, con la caduta del governo e proteste popolari contro la guerra d’Africa, un tema che all’epoca era sentito soprattutto dalle classi dirigenti e dalle élite borghesi.

La risonanza internazionale della sconfitta di un esercito europeo moderno e bianco ad opera delle truppe imperiali di un millenario regno nero e  ebbe riverberi enormi tra i popoli afrodiscendenti delle diaspore in occidente e in tutte le colonie afroasiatiche, influenzando significativamente movimenti politici, religiosi e culturali per le generazioni a venire. La vendetta italiana tuttavia arriverà, anche se con qualche decennio di ritardo, con il fascismo e la campagna d’Etiopia. L’Italia tenterà di riabilitare la sua immagine appropriandosi di ciò che già in epoca liberaleriteneva le spettasse per diritto divino: una terra fertile, calda e ampia da poter popolare, assoggettare e sfruttare. 

Occupare la terra “di nessuno” è un ritornello che torna spesso quando si incontrano testimonianze dell’epoca, solitamente racchiuse nei diari di viaggio di coloni avventurieri e rampolli di famiglie indutriali. 

AMNESIE COLONIALI

Esaltato, dimenticato, nascosto, motivo di orgoglio: il relativamente recente passato coloniale italiano è una pagina di storia che non ha mai vissuto una fase, neppure breve, di rielaborazione critica collettiva e che fatica ad uscire dagli archivi personali e di stato. In questi casi si dice che le colpe dei padri non possano ricadere sui figli – il colonialismo non c’entra con noi – ma se tanti di questi padri della patria hanno partecipato all’occupazione diretta, un’eredità, almeno ideologica, ci sarà pure? Se l’identità nazionale si è formata e definita anche per mezzo della convinzione nel diritto alla colonizzazione della terra in nome della superiorità bianca e europea, come possiamo oggi pensare che questo non ci riguardi? Con la colonia primogenita, ovvero l’acquisizione del porto di Assab in Eritrea da parte della compagnia commerciale genovese Rubattino – su concessione del governo britannico – inizia l’assalto alla terra, una terra considerata vuota, inabitata. iPerché i suoi abitanti erano considerati animali, bestie selvagge da domare, scacciare, stuprare, uccidere per divertimento o noia. L’insediamento italiano in Africa aveva l’ambizione di popolare, dare respiro e sfogo alla vasta emigrazione italiana post-unitaria tentando di riunire la nazione entro i confini estesi della colonia. Di fatto, però, i numeri della presenza militare rimasero, fino al 1942, largamente più alti di quelli dei coloni civili. 

Mettere i piedi in Eritrea permise all’Italia di entrare nel continente da padrona, creandosi una base d’attacco “legittima”, in cui saccheggiare terre e persone da ridurre in schiavitù sessuale, domestica e/o militare, e da cui tentare la scalata al vero obiettivo di prestigio, l’Impero etiopico.

È del 2023 per Tamu edizioni la pubblicazione tradotta in italiano dal Professor Uoldelul Chelati Dirar del libro L’Ascaro. Una storia anticoloniale di Ghebreyesus Hailu. L’autore, nato nel 1906, fu uno studioso e religioso eritreo, un importante intellettuale del suo tempo, che in questa controstoria antieroica racconta della barbarie del colonialismo sui corpi e sulle menti delle persone colonizzate, costrette a combattere guerre non loro, contro altri popoli da colonizzare, sfruttare e stuprare per arricchire l’Italia e i suoi peggiori avventurieri. L’Italia coloniale ha convinto con la propaganda, la fame e il sequestro di persona tanti giovani a lasciare incustodita la loro terra, una terra in cui penetrare sempre di più, in cui impiantare fabbriche e piantagioni, in cui costruire strade e ferrovie utili solo per svuotare e derubare la terra e ingrandire il benessere di latifondisti e imprese parastatali. Dall’altipiano al mare e poi via verso l’Italia:

 “Dopo aver marciato per l’intera giornata, verso sera gli ascari allestirono l’accampamento. I piedi ustionati erano diventati simili a tizzoni bruciacchiati e, appena avuto un po’ di respiro, iniziarono a ricoprirsi di vesciche piene di liquido. Lì dove si trovavano, sparpagliati a caso sulla sabbia senza alcun giaciglio e senza neanche togliersi le uniformi o sfilarsi le armature, giacquero immobili al suolo sperando che sopraggiungesse il sonno. Al contrario, per gli ufficiali italiani, che avevano viaggiato tutto il giorno a dorso di mulo, furono piantate tende per proteggerli dall’umidità della notte e dalla sabbia, furono allestiti i letti e predisposta l’acqua. E a chi toccava svolgere questi compiti? Ovviamente ai figli di habesha, il cui destino è tribolare (…) Ma ciò che tuttavia desta stupore è che al figlio di habesha scelto per servire l’europeo, che sia per preparagli il letto, cucinargli i pasti, pulirgli le armi o accendergli la sigaretta, pare di essersi innalzato fino al settimo cielo rispetto agli altri suoi commilitoni. Pertanto, un inutile servitore che trascorre la giornata marciando dietro al mulo del capitano, saziandosi dell’odore del suo sterco, si crede di regnare sui suoi commilitoni solo perché oltre al suo tarbush si fa carico del cappello del comandante”.

Il realismo della scrittura di Ghebreyesus Hailu ci trasporta dentro i giochi di forza dei sottomessi e ingannati giovani eritrei e fa sgretolare  il mito degli italiani brava gente col racconto delle bassezze quotidiane che hanno caratterizzato la vita non solo dei colonizzati ma anche dei colonizzatori, che senza l’apporto militare e strategico degli ascari eritrei non sarebbero nemmeno riusciti a portare a termine il progetto di annessione imperialista di Cirenaica e Tripolitania e delle loro libere popolazioni, guidate dalla resistenza anti-italiana di Omar Al-Muktar.

COSA NASCE?

“O nostro sacerdote, perché non fai qualcosa per fermare tutto ciò?

Non un solo giovane trovano le donne, tutti per Tripoli sono partiti!”

Ghebreyesus Hailu, L’ascaro. Una storia anticoloniale

I motivi che spinsero i giovani eritrei ad arruolarsi nelle fila delle truppe italiane non sono ovviamente gli stessi  per tutti, ma sicuramente l’indigenza, il land e water grabbing e le promesse di accedere a un miglior livello di vita una volta rientrati dalle campagne di offesa militare, ingannò inizialmente buona parte dei giovani dell’epoca. Ridotti a schiavi, non solo al fronte e nelle operazioni militari, ma anche al cospetto dei “militari” italiani, oziosi, tronfi del potere, e galvanizzati dalle imprese selvagge, i giovani eritrei erano costretti a servire e accudire i loro colonizzatori come “madri-serve”. Gli italiani non portarono solo armi e violenza ma anche una cultura diametralmente opposta rispetto a quella dell3 nativ3i, che pur vivendo secondo schemi definibili patriarcali, avevano rapporti tra i generi di natura collaborativa e comunitaria e maggiormente permeabili ai cambiamenti di status e condizione rispetto alla bigotta e gerarchica Italia liberale e fascista, che concedeva assai meno diritti alle sue cittadine rispetto alle organizzazioni sociali locali.

Lo sfruttamento sessuale delle donne colonizzate è stato parte integrante e costitutiva dello sfruttamento imperialista; l’immaginario coloniale si alimentò largamente di rappresentazioni erotiche/esotiche. La propaganda esaltò la missione civilizzatrice del popolo italiano in Africa, una missione che doveva avvenire anche servendosi dei corpi delle donne: “la guerra coloniale fu infatti una guerra di massa che coinvolse “quasi mezzo milione di uomini, cioè circa uno su cinque dei giovani maschi che avevano fra i venti e venticinque anni nel 1935”.  Questa sentita partecipazione fu fomentata dalla cultura misogina e razzista che si esprimeva sulla stampa, nelle prediche di parroci e politici, nei libri di scuola, nelle strade, nelle canzoni, persino nei nomi dei piatti della tradizione o delle strade. 

Il rapporto di potere tra colonizzatori e colonizzati nella colonia d’Eritrea cambiò a seconda del periodo e dei governi che si succedettero. Nell’epoca dello stato coloniale “un numero significativo di uomini allevò e riconobbe legalmente i propri figli italo-eritrei, la maggioranza invece li abbandonò (…) In Eritrea, la relazione di potere coloniale, la lontananza dall’Italia e il pregiudizio razziale rendevano per gli uomini italiani ancor più facile abbandonare i figli”. I dati afferenti i riconoscimenti paterni dell3 figl3 di padri italiani ovviamente calarono drasticamente durante l’impero fascista e le leggi razziali, nonostante le nascite di diversi bambini, ma le difficoltà persistettero anche  dopo la fine della guerra, quando l3bambin3 continuarono a nascere e a venir riconosciut3 solo a fronte di grandissimi sforzi burocratici.

Madri e figl3 abbandonat3 subirono il doppio ostracismo della società italiana e tigrina, che non riconosceva l3 figl3 delle donne abbandonate, che dovevano crescere secondo la cultura del padre pur in sua assenza ma che non venivano ammess3 ai circoli italiani per non riconoscere che il timore più grande, quello di mescolarsi con persone inferiori/“non persone”, fosse diventato realtà. 

Il razzismo viene storicizzato come un fenomeno occidentale moderno, preceduto da fenomeni definiti “protorazzismi” che avevano già al loro interno quello che l’antropologo Leonardo Piasere definisce il cuore del razzismo: la mixofobia, ovvero il rifiuto dell’incrocio, l’orrore delle mescolanze tra gruppi umani. 

Abbandonat3 in orfanotrofi per met**ci, considerat3 scherzi della natura, impur3, inclin3 ai vizi e alla delinquenza, l3 bambin3 italo-eritre3 non riconosciuti dai padri vissero in  condizioni tra le più miserabili anche dopo la fine formale del colonialismo italiano. 

CONTINUITÀ COLONIALI

A pochi mesi dal suo insediamento, Giorgia Meloni ha iniziato a partecipare a diversi incontri bilaterali assieme a ministr3 e capi di governo di paesi affacciati sul Mediterraneo, e non solo. I programmi delle destre europee raccolgono enorme consenso sui temi delle migrazioni e della difesa dei confini e Meloni straparla di blocchi navali da quando ancora era nei governi Berlusconi. Resta però interessante che a causa delle sue politiche si ritrovi a interfacciarsi sempre più spesso con paesi che in passato hanno intessuto rapporti con l’Italia in posizioni di forte asimmetria e occupazione coloniale, temi che la stessa presidente sostiene però non emergere all’interno di questi incontri. 

Nonostante la dipartita di Gheddafi e la pesante instabilità del paese, nel 2022 l’accordo Italia-Libia si è rinnovato in automatico, continuando ad alimentare la spirale di violenze, torture, abusi e detenzione arbitraria a cui sono sottoposti uomini, donne e bambin3 intrappolati in Libia.

Lì infatti vengono fermat3i, dopo essere stat3 rintracciat3 in mare da una guardia costiera criminale che ha il compito di non far entrare “l’uomo nero” all’interno della fortezza-Europa. Ma il quadro si estende anche oltre la Libia. 

La Tunisia, da cui le persone, molte giovanissime, continuano a partire a causa di mancanza di diritti, di lavoro e libertà, è geograficamente tra i paesi più vicini alle acque territoriali italiane, una vicinanza che non ha sempre e solo portato migranti da sud a nord. Il viaggio in direzione opposta in passato lo fecero molti italiani, diretti in particolare a Tunisi,o, città in cui sognavano di costituire prima o poi una colonia, il vero sbocco naturale dell’Italia nel continente africano. L’intervento francese distrusse i sogni della nutrita comunità italiana in Tunisia, che poté rimanere nel paese sotto il controllo francese ma non da padrona. 

La colonia di popolamento è sempre stata un desiderio e una “necessità nazionalista” di un paese a così alta emigrazione e ad alta natalità come era l’Italia post-unitaria. Oltre ai tentativi in Africa ce ne sono stati  anche di più vicini, come in Albania, verso cui i l’occupazione fascista italiana dal 1939 tentò una migrazione cospicua nel tentativo di italianizzarne la cultura.

L’Italia ora è un paese che non cresce più demograficamente, e nonostante molte persone, giovani in particolare, continuino a migrare, forse nemmeno le destre ambiscono più a creare colonie di popolamento per i loro cittadini. Quegli spazi ampi e lontani servono ora per sbiancare la nazione e allontanare i corpi estranei.

Le considerazioni su quanto sia fantastico poter liberamente parlare italiano a Tirana, andare e venire senza passaporto e pensare di poter far diventare un paese come l’Albania la nostra discarica di corpi neri, che non vogliamo entro i confini dell’impero, dovrebbe indicarci che –  pur se ci sono gerarchie sulla linea del colore – la visione disumanizzante delle culture coloniali colpisce in generale tutto ciò che si considera al di fuori dell’identità tribale del sangue della nazione. 

Meloni è volata anche in Etiopia, ha parlato con I suoi omologhi Aby Ahmed Ali (Etiopia) e Mohamed Husein Roble (Somalia). Alla domanda diretta di giornalist3, se le relazioni coloniali e di aggressione, che hanno regolato in passato i rapporti tra i due stati, fossero stati oggetto di discussione, la squadra di governo ha riferito che il tema “Non è emerso”. Non è emerso nemmeno mentre si prendevano accordi economici che rischiavano di minare la stabilità politica dell’intera area, come nel caso della grande diga etiopica costruita da grandi gruppi italiani. Stranamente il tema non è emerso neppure in termini nostalgici – c’era da aspettarselo, dato che Meloni è politicamente erede di una storia fascista e razzista, tanto da aver eletto il direttore della “Difesa della Razza” – il riabilitato Giorgio Almirante – come pensatore di riferimento della sua attività politica e da celebrarlo con la fiamma nel simbolo del suo partito, ora al governo.

Il tema forse non emerge a parole, ma nei fatti decisamente sì!

Il Piano Mattei per l’Africa, presentato con orgoglio tronfio dal governo italiano, ha ricevuto un fermo ALT dagli esponenti del continente arrivati a presenziare: “Non possiamo partecipare a tavoli in cui si decide su di noi senza consultarci”. Le prassi base del vivere civile non vengono rispettate quando si tratta “dell’altro”; sono modi di fare che ricordano le trascrizioni ambigue di Ucciali, la prepotenza e la prerogativa a fare ciò che si vuole sempre, per diritto. 

Manifesto di Corrado Mancioli. 1943. trovato su limes on line

CPR E COLONIALISMO. PONTE GALERIA, UNA NUOVA NOCRA

L’apartheid è un modello di organizzazione sociale che non si è esaurito con la fine formale del colonialismo e del nazismo: si è ridefinito all’interno degli interstizi che le nuove organizzazioni sociali e di potere hanno lasciati incustoditi e dimenticati, e si manifesta ancora oggi, anche adottando nuovi nomi e nuovi scopi e incarnando nuovi sogni della maggioranza.

L’esempio più evidente di apartheid contemporaneo nel nostro paese è il sistema dei campi in cui chiudere e controllare persone appartenenti alle minoranze romanì – presenti in Italia da almeno 600 anni – un controllo fondato solo su credenze razziali mai estirpate e anzi ampiamente condivise e fomentate dalla politica di governo e di provincia. L’Italia, che ha avallato e partecipato allo sterminio di rom e sint3 italian3 durante il fascismo, continua oggi a perpetuare la discriminazione nei confronti di cittadin3 a cui non è mai stata riconosciuta l’ingiustizia subita né un’identità da tutelare, anche a fronte di ciò che la stroria li ha portati a vivere; anzi si percepiscono i confini della segregazione come più malleabili e permeabili ai mutamenti, non essendo così rigidamente definiti da uno stato esplicito di segregazione ideologica. Ma è realmente così nelle campagne del foggiano, nei campi di Roma o nelle stalle della pianura padana? 

Dietro le sbarre dei CPR di tutta la penisola, poi, non si consuma vera e propria sospensione di qualsiasi diritto in nome di una provenienza esterna alla nazione e del pericolo insito nel diverso? Nell’Italia del 2024 abbiamo persone rinchiuse senza processo solo per il fatto di essere di origine straniera, che restano imprigionate per anni in attesa di processo, rimpatrio, rilascio. Sono persone viste come pericoli anche quando sono integrate nella comunità e hannoreti amicali e lavorative, per il solo fatto di avere il permesso di soggiorno scaduto a causa del precariato, dello sfruttamento, del razzismo. 

Alimentati con cibo scadente lanciato attraverso le sbarre, condito con psicofarmaci, le persone trattenute non hanno alcuna possibilità di comunicare con l’esterno, sebbene il regolamento lo permetta. 

Ponte Galeria è il CPR tristemente noto per essere il più grande d’Italia, con anche una sezione femminile. Non c’è alcun progetto all’interno e, con l’equiparazione dell3 minori stranier3 non accompagnat3 all3 maggiorennia partire dai sedici anni, sempre più giovanissim3 – che andrebbero tutelat3, protett3 e inseriti in progetti di formazione – entreranno nel lager CPR. Un inferno di filo spinato a pochi metri dalle nostre case, in cui i tentativi di suicidio sono quotidiani e le uniche interazioni con l’esterno sono le botte prese, quando l’essere umano si ribella a tutta questa violenza rispondendo con gli unici mezzi che il sistema gli permette di conoscere. Nonostante i pregiudizi diffusi, l3 migrant3 non sono un blocco unico di vite e esperienze e i motivi per cui finiscono nella tela dell’apartheid sono i più disparati:

“Nella sezione femminile la maggioranza delle internate sono donne vittime di tratta in attesa di rimpatrio e ad alto rischio di re-traffiking, alle quali si aggiungono in maggioranza collaboratrici domestiche, residenti di lungo corso, che hanno perso il permesso di soggiorno a causa della discontinuità lavorativa. Nel mese di marzo (2024), c’è stata una protesta per ricordare il suicidio di Ousmane Sylla, un ragazzo della Guinea di 22 anni, bisognoso di cure che non poteva essere espulso perché assenti accordi bilaterali in materia di rimpatri e migrazioni fra l’Italia e la Guinea. Sul muro della cella aveva scritto: Mi manca mia madre, voglio tornare in Africa e poi si è su***dato la notte del 3 febbraio. Ousmane Sylla era arrivato in Italia da minorenne straniero non accompagnato e invece di essere protetto era finito nel circuito infernale dei Cpr”.

Seif Bensouibat invece in quel CPR ci è finito dopo essere stato segnalato da un collega per un post pro-Palestina su una chat privata. Rischia la revoca dei documenti che gli permettono di stare in Italia legalmente – lo status di rifugiato – per un’opinione; trattenuto per tre giorni a Ponte Galeria uscendo ha dichiarato: “Delle condizioni del CPR parlerò un’altra volta, posso solo dire che è un disastro, è una cosa inumana. Io sono qua da tre giorni e mi sento già peggio di un animale; penso agli altri che sono là da sei mesi, dodici mesi e anche di più…”.

Che tu sia un giovane ragazzo in difficoltà, schiacciato dal razzismo istituzionale, una survivor, un insegnante di scuola o una lavoratrice precaria questo è ciò che la democrazia italiana ha pronto per te. Sei un* immigrat*, un corpo estraneo per la nazione, da espellere e scacciare se non utile alla macchina dello sfruttamento.

Camminare con il documento sempre pronto in mano è quasi necessario per poter attraversare “liberamente” gli spazi per chi ha origini “non rappresentative del prototipo italico”, esattamente come nelle città bianche del Sud africa o ad Addis Abeba “quando c’era lui”. 

LA MEMORIA E IL RICORDO DELLA BARBARIE 

L’Abissinia ha da essere nostra, perché tale è la sorte delle razze inferiori; i neri a poco a poco scompaiono, e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli abissini ma per noi (Benito Mussolini, 5 Maggio 1936, discorso a Piazza Venezia)

Il 9 maggio 1936 vennedichiarata la definitiva presa di Addis Abeba e la nascita dell’impero fascista: l’Etiopia era finalmente italiana.

L’offensiva non aveva certo assoggettato tutto il vasto territorio e la resistenza dei Ras, comandanti nobili fedeli all’imperatore, imperversava e continuava a infliggere perdite alle truppe fasciste del ‘36. Reduce dalla precedente storica sconfitta il regno fascista d’Italia si accaparrò per cinque anni scarsi alcuni territori d’Etiopia solo grazie all’uso di armi chimiche proibite, che bruciarono i corpi di migliaia di persone e costrinsero alla resa l3 resistenti.  

Dopo l’attentato al generale Graziani, per giorni nella città di Addis Abeba è stata portata avanti una caccia all3 ner3 strada per strada – persone uccise, torturate e bruciate a centinaia, linciaggi casa per casa; e questo fu solo l’inizio della vendetta, che seppur breve causò grandi traumi, anche generazionali, a tutte le popolazioni coinvolte. 

Camicie nere della Rivoluzione, uomini e donne di tutta Italia, Italiani e amici dell’Italia, al di là dei monti e al di là dei mari: ascoltate. Il Maresciallo Badoglio mi telegrafa: «Oggi 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abebà” (Benito Mussolini, Roma, 5 maggio 1936) 

Ancora paghiamo le famose accise sulla benzina per quella guerra: non è bastata la rapina operata dal regime alle famiglie italiane, a cui fu “chiesto” di donare gli ori di famiglia alla patria per fondere munizioni. Il caro prezzo dell’invasione e della superiorità. 

Non c’era alcun reale bisogno per l’Italia di partecipare allo Scramble for Africa. Vi andò semplicemente, per una questione di prestigio. Premevano per l’impresa, le società geografiche, le industrie armatoriali, cantieristiche e siderurgiche, i circoli colonialisti e i loro figli, che insistevano sulla concezione messianica del destino dell’Italia, sui miti della romanità, sull’esigenza di dare sfogo alla spinta demografica, che era fra le più alte d’Europa.

Come sottolinea Angelo Del Boca, oltre alle scarse motivazioni, il paese, di fatto appena costituitosi, non aveva adeguati mezzi economici, bellici e strategici per poter sperare in un successo pieno. “Impreparazione logistica, strategica, politica e con un’assoluta ignoranza dei costumi e delle culture delle popolazioni incontrate, portò fatalmente a maturare nei confronti degli africani ingiusti pregiudizi e un diffuso disprezzo razziale”. 

Lo spazio di continuità tra la cultura politica coloniale e quella odierna sembra ampio, gli spazi di discussione scarsi e decisamente poco incisivi sull’immaginario delle persone che inciampano casualmente in narrative decoloniali. Per fortuna, intellettuali, scrittor3, artist3, storic3 e attivist3 stanno cercando sempre di più di preservare a dare maggior visibilità a spazi di memoria e a controstorie sempre più attuali, seppur passate. 

Nel 1890 il processo Cagnassi-Livragi portò alla luce l’habitus criminale del duo – un avvocato e un carabiniere stabilitisi in colonia – costellato non solo di contrabbando e reati economici, ma di vere e proprie ritorsioni sadiche sulla popolazione, come l’uccisione – per noia o vezzo – di 800 ascari da loro comandati. 

L’ipotesi di sostituire la razza soggetta con la razza dei dominatori, che implicava il genocidio di un popolo, non era un’idea così peregrina e trova ampie spiegazioni nel lavoro di Del Boca. Come ricorda Nicola Labanca è con l’immaginazione che in parte si compiono le guerre d’offesa coloniale: “sembrava fare presa sui più africanisti fra gli ufficiali italiani il mito americano: quello delle feroci guerre indiane, della guerra e della vittoria totali, della soggiogazione e dello sterminio della popolazione autoctona.”

Questi piccoli tasselli di un mosaico, ampio e complesso, che compongono i rapporti imperialisti e coloniali dell’Italia con le terre che ha occupato e sfruttato nel corso della sua storia iniziano a diventare, se non memoria collettiva di una nazione, rivendicazione politica delle minoranze che ne sono state influenzate e che per buona parte vivono in diaspora e razzializzate dal sistema a causa di relazioni dirette con questa eredità storica e morale. 

Sarebbe bello che il 5 maggio, data in cui finisce formalmente l’occupazione italiana dell’Etiopia, diventasse un nuovo Giorno della Memoria, uno spazio in cui piangere la tragedia del colonialismo, parlarne, conoscerlo, ascoltare tutte le storie che vogliiono essere narrate, e così riumanizzare la storia e finalmente integrarla con il posizionamento paritario di chi è sempre stato silenziato. 

Bibliografia 

Giulia Barrera, Patrilinearità, razza e identità: l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885- 1934) 

Angelo Del Boca, Italiani brava gente? 

Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie

Ennio Flaiano, Tempo di uccidere 

Ghebreyesus Hailu, L’ascaro. Una storia anticoloniale

Leonardo Piasere, L’antiziganismo 

Nicoletta Poidimani, Difendere la “razza”. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini

Igiaba Scego, Roma Negata 

Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere

Sitografia

Amnesty International

Medici senza frontiere

Emergency

No ai CPR

Lifegate.it 

Newsletter consigliate

Buchi Neri, rete No ai CPR

Africana, Internazionale on line 

Colonialism 

CAPTION: Colonialism has influenced the lives of many Italians: it has shaped memories, family anecdotes, perceptions of others, assumed knowledge, and prejudices.  

This often-silenced history needs additions, perspectives, and new voices to be told.

TW: colonialism, rape, violence

DENIED MEMORIES – THE VIOLENCE OF THE COLONIAL SYSTEM NEEDS TO BE TOLD BY NEW VOICES 

Italian colonial history is part of a relatively recently “closed” chapter: there are still elderly people alive today who were born in places where, simply by being Italian and white, they were legally considered superior beings. Although the *Manifesto of Race* and racial laws only came into force in Italy in 1938 – shattering the lives of Jews, Romani, LGBTQIA+ communities, people with disabilities, and others – life in the colonies, shaped by the needs of a minority of white “chosen ones” and a majority of enslaved, subjugated, and Black people, was already a testing ground for racial, economic, and sexual policies. These policies were later implemented in Italy during Fascism. Still, they were widely experimented with earlier in the Horn of Africa, particularly in Eritrea. This colony was under Italian control for the longest period and the first stepping stone in a larger project.  

The exoticised vision of African lands, described as free, warm, and fertile, fuelled the imagination of young Italian men, eager to set off to conquer the land and the so-called *savage native women* – portrayed in a manner so similar to the land itself in the nationalist discourse that had been propagated long before the March on Rome and the Ethiopian campaign of the 1930s, to the peasant masses, who were starving and yearning for a different life, one in which they could finally triumph over history and someone else.

These stories – which are not limited to the African continent – have never been critically analysed or to build a collective memory that includes the various experiences which characterised and influenced it. Academic research on the subject has indeed begun to increase, even in Italy: however, its dissemination remains marginal, and the debate it could spark is still confined to niches of people interested out of personal curiosity or in optional courses at a few humanities universities. In the rare moments of debate in fewer niche spaces, the self-exonerating idea of “Italians as good people” and the nostalgia for the lost colonies still dominate, at the expense of postcolonial theories and experiences.

WHITE NATIONS, BLACK LANDS  

The squared-off map of internal African borders is a clear trace of how European powers carved up a territory alien to them, following mere logics of profit and power, tearing apart peoples and plundering resources.  

All the European powers participated in the division of the great bounty – the African land. By the 19th century, they already became established nation-states with bases, outposts, and colonial regimes installed across the globe, reaping enormous economic benefits, which they reinvested in further invasions and to stabilise the occupied territories. This bolstered national and international prestige, allowing them to claim more land, more rights, and more power.  

Italy and Germany, latecomers to the Scramble for Africa, easily made up for lost time. Germany sought to establish the third-largest colonial empire in Europe and experimented with new technologies in executing the first genocide of the 20th century, that of the Herero people in Namibia – an experience without which the Third Reich would not have been so efficient in creating the deadly machinery of the Nazi concentration camps. The “crumbs and sand” were left for the remaining players, including Italy, which needed to prove it could sit at the same table as the “great powers.”  

With the affirmation of the principle of nationality and the fulfillment of nationalist aspirations in the formation of modern states came the need to defend against anything that hindered the nation’s development and growth.  

The quest for legitimacy involved the use of force, with the frequent success of subjugating peoples with different or less effective socio-economic organisations, cultures, and technologies, particularly in the development of weaponry and defence. These differences were used to justify racist and predatory aspirations, starting with the Scramble for Africa and continuing with neo-colonialist and imperialist actions that remain part of the agendas of major economic corporations, Western states, and “new” international actors such as China, India, and the United Arab Emirates.  

Italy achieved unification in 1861 and, with the establishment and stabilisation of the state, began to aim for expansion. By 1896 Italy made its first incursions, just 12 years after the Berlin Conference – which provided the first sanction for the division of Africa by codifying future regulations and establishing the principle of legitimate occupation, defining a “colony” as a territory actually controlled.  

The continent, now fully invaded and divided, awaited only the addition of another European flag in the few remaining areas free of invaders: the only large swathe of land without foreign control (either direct or indirect) was the Ethiopian Empire, and Italy believed it did not need to ask anyone’s permission to take it.  

The Italian liberal government, led by Crispi, had already attempted territorial penetration, launching offensive actions that led to the signing of the Treaty of Wuchale in 1889, drafted in both Italian and Amharic. However, the Italian version granted the Kingdom of Italy a sort of protectorate over the country, an ambiguity that came to light in 1895, prompting Italy to attempt direct aggression by attacking from neighbouring Eritrea (already occupied by Italy at the time).  

On this occasion, the Ethiopian army defeated the Italian troops in what became known as the Battle of Adwa in 1896, just 15 years after Rome was declared the capital of the Kingdom of Italy. The defeat shattered Italy’s colonial ambitions to establish an enclave in Ethiopia – an event almost unprecedented in European colonial history, and it had immediate repercussions in Italy, with the fall of the government and popular protests against the African war, a topic then of interest primarily to the ruling classes and bourgeois elites.  

The international resonance of the defeat of a modern, white European army by the imperial troops of an ancient Black kingdom had a profound impact on Afro-descendant peoples of the diasporas in the West and in all Afro-Asian colonies, significantly influencing political, religious, and cultural movements for generations to come.  

Italian revenge would come, albeit decades later, with fascism and the Ethiopian campaign. Italy would attempt to rehabilitate its image by claiming what it already believed, during the liberal era, was its divine right: a fertile, warm, and vast land to populate, subjugate, and exploit.  

The idea of occupying “no man’s land” frequently reappears in testimonies from the time, usually found in the travel diaries of adventurous colonists and scions of industrial families.

COLONIAL AMNESIA  

Exalted, forgotten, hidden, or a source of pride: Italy’s relatively recent colonial past is a chapter of history that has never undergone even a brief phase of collective critical re-evaluation and struggles to emerge from personal and state archives. In these cases, it is often said that the sins of the fathers should not fall upon the children – “colonialism has nothing to do with us” – but if many of these founding fathers of the nation directly participated in colonial occupations, isn’t there at least an ideological legacy? If national identity was also formed and defined by the belief in the right to colonise lands in the name of white and European superiority, how can we think that this does not concern us today?  

With the first colony – the acquisition of the port of Assab in Eritrea by the Genoese commercial company Rubattino, granted by the British government – the scramble for land began, land considered empty and uninhabited. This was because its inhabitants were deemed animals, wild beasts to be tamed, driven out, raped, or killed for fun or out of boredom. The Italian settlement in Africa had the ambition to populate the colonies, offering an outlet for the vast wave of post-unification Italian emigration, attempting to unite the nation within the expanded borders of the colony. In practice, however, the number of military personnel remained, until 1942, far higher than that of civilian settlers.  

Setting foot in Eritrea allowed Italy to enter the continent as a ruler, creating a “legitimate” base of operations from which to plunder land and people, reducing them to sexual, domestic, and/or military slavery, and using it as a springboard towards the real prize of prestige – the Ethiopian Empire.  

In 2023, Tamu Editions published the Italian translation, by Professor Uoldelul Chelati Dirar, of the book *The Ascaro: An Anti-colonial Story* by Ghebreyesus Hailu. Born in 1906, Hailu was an Eritrean scholar and clergyman, an important intellectual of his time, who in this counter-heroic narrative recounts the barbarity of colonialism on the bodies and minds of the colonised, forced to fight wars that were not theirs, against other peoples to be colonised, exploited, and raped for the enrichment of Italy and its worst adventurers.  

Colonial Italy used propaganda, hunger, and forced conscription to convince many young men to leave their land unguarded, a land that would be increasingly penetrated to build factories and plantations, roads, and railways – all useful only for draining and robbing the land to enrich landlords and parastatal companies. From the highlands to the sea and then off to Italy:  

“After marching all day, by evening the ascaris set up camp. Their scorched feet had become like charred embers, and as soon as they could catch their breath, they began to blister with fluid. There they lay, scattered randomly on the sand without any bedding, without even removing their uniforms or armour, lying motionless on the ground, hoping sleep would come. Meanwhile, for the Italian officers, who had travelled all day on muleback, tents were erected to protect them from the night’s damp and sand, beds were made, and water was set aside. And who was tasked with these duties? Of course, the habesha sons, whose fate it was to toil (…) But what remains astonishing is that the habesha son chosen to serve the European – be it to prepare his bed, cook his meals, clean his weapons, or light his cigarette – believed he had ascended to the seventh heaven compared to his comrades. Thus, a useless servant who spent his days marching behind the captain’s mule, sated only by the smell of its manure, believed he was ruling over his fellow soldiers simply because, besides wearing his tarbush, he also carried the commander’s hat.”

The realism in Ghebreyesus Hailu’s writing immerses us in the power dynamics experienced by the subjugated and deceived young Eritreans, shattering the myth of the “good Italians” with accounts of the daily humiliations that shaped the lives of not only the colonised but also the colonisers. Without the military and strategic support of the Eritrean ascaris, Italy would never have succeeded in completing its imperial annexation of Cyrenaica and Tripolitania and their free populations, led by the anti-Italian resistance of Omar Al-Mukhtar.

WHAT COMES NEXT?

“Oh our priest, why don’t you do something to stop all of this? Not a single young man do the women find, all have gone to Tripoli!”

– Ghebreyesus Hailu, The Ascaro: An Anti-colonial Story

The reasons that drove young Eritreans to enlist in the ranks of the Italian troops were, of course, not the same for everyone, but poverty, land and water grabbing, and the promises of a better life upon returning from the military campaigns initially deceived many of the young men of the time. Reduced to slaves, not only on the frontlines and in military operations but also in the service of the idle and arrogant Italian “soldiers,” emboldened by their savage exploits, Eritrean youth were forced to serve and tend to their colonisers like “servant-mothers.” The Italians did not only bring weapons and violence but also a culture diametrically opposed to that of the natives. While the native societies could be described as patriarchal, they had collaborative, community-based relationships between genders that were more adaptable to changes in status and condition than the rigid, hierarchical, and conservative Italian liberal and fascist systems, which granted far fewer rights to their own citizens than local social structures did.  

The sexual exploitation of colonised women was an integral and constitutive part of imperialist exploitation. The colonial imagination was largely fed by erotic/exotic representations. Propaganda glorified the Italian people’s civilising mission in Africa, a mission that also involved the use of women’s bodies: “The colonial war was, in fact, a mass war that involved ‘almost half a million men, that is, about one in five young males aged between 20 and 25 in 1935.’” This widespread participation was fuelled by the misogynistic and racist culture expressed in the press, in the sermons of priests and politicians, in schoolbooks, in streets, songs, and even in the names of traditional dishes and roads.  

The power dynamic between colonisers and colonised in the Eritrean colony shifted depending on the period and the successive governments. During the colonial state period, “a significant number of men raised and legally recognised their Italo-Eritrean children, but the majority abandoned them (…) In Eritrea, the colonial power dynamic, the distance from Italy, and racial prejudice made it even easier for Italian men to abandon their children.” Unsurprisingly, the number of paternal recognitions of children by Italian fathers plummeted during the fascist empire and the racial laws, despite the numerous births. Even after the war, when children continued to be born, recognition came only after immense bureaucratic effort.


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