“Passing”, un privilegio che non puoi giudicare

Post: Alessia

Edit: Barto, Zula

Traduzione: Veronica

Edit Traduzione: Teresa

Grafica: Claudia

Disclaimer: Il termine “colorato” è stato usato intenzionalmente da chi ha creato la rubrica, una persona italiana nera di origine Afro-statunitense e Afro-Latina Peruviana. Ho deciso di riappropriarmi di questo termine, la cui violenza non è da meno rispetto agli slurs più eclatanti. Riappropriandomi di questo termine non voglio tuttavia in nessun modo triggerare le persone che leggono, motivo per cui ho tenuto a specificare le mie motivazioni.

TW Parole forti, outing, outing etnico.

White passing, hetero passing e via discorrendo, ci sono molte tipologie di privilegi in questo mondo, ed uno di questi (che viene poi diramato in altri privilegi) è l’essere “apparentemente uguale a tutt3 l3 altr3”.

Su Instagram ho già affrontato la differenza tra white passing e white presenting, le persone presenting sembrano bianche ma non vanno in giro dicendo di esserlo, vengono percepite come tali, le persone white passing hanno usato i loro tratti somatici per non essere sistematicamente e strutturalmente discriminatə, è una questione di sopravvivenza, che in passato in molte parti del mondo poteva decidere le sorti della tua vita.

La situazione non è cambiata, ma a scrivere il post è una persona che vive in un mondo privilegiato, in un Paese che viene considerato, usando un termine forte e da colonizzator3, del “Primo Mondo”, un mondo in cui decidere di essere white passing è più una questione sociale, non di vita o di morte.

Con questo non intendo dire che al giorno d’oggi pure nel Paese in cui mi trovo non ci siano persone che siano white passing per una questione di vita o di morte, dico semplicemente che, per la persona che scrive, nella “bolla” che è la mia vita, non è questo il caso.

Fin da piccola, ho sempre odiato le persone che riuscivano e soprattutto volevano passare per persone diverse da quel che erano.

Persone white passing (non white presenting) che negavano le loro origini, o persone hetero presenting che negavano a loro stesse  relazioni passate, poiché erano hetero passing agli occhi della società, quindi non  “visibilmente queer”, mi irritavano.

Non mi irritava il fatto che loro potessero nascondere la loro “diversità”, come hanno pensato alcune persone con la quale parlai, ma mi irritava il fatto che pur capendo le sensazioni che provavamo “noi altr3” si comportavano esattamente come “loro”.

Erano come una talpa, erano dei “nostr3” ma stavano con “loro”. In tutto ciò non vedevo altro che tradimento.

E quando ero piccola feci, più volte, una cosa della quale da grande mi pentì amaramente, e mi scusai.

Feci outing sessuale, ed anche outing razziale.

Una volta feci outing sulla base di supposizioni e situazioni che avevano attirato la mia attenzione e che alla fine si rivelarono corrette al 100%. Quella persona era una bulla, e volevo farle assaggiare la sua stessa medicina con insinuazioni su di lei, ma non avevo il diritto di farlo.

Una volta feci outing etnico, poiché questa amica si era rivelata falsa, ed aveva atteggiamenti razzisti con una persona che non piaceva a nessuna delle due, ma gli stereotipi sulle persone nere uscirono, non sopportai il chiaro anti-blackness e risposi a mio modo, ricordando a lei, davanti la sua “nuova amica” che lei era sinti.

Un’altra volta incontrai una ragazza originaria di un Paese Africano in cui parlano Portoghese, ma lei finse di essere Brasiliana, e quando lo capii, mi infastidii, anche perchè vedevo lei parlare male di altre persone Africane, e quindi dissi chiaramente che lo era pure lei.

Mi sono subito pentita di ciò che avevo fatto, nei primi due casi mi proteggevo dietro l’idea che loro avrebbero dovuto capire quanto duole il razzismo, la discriminazione, e che avrebbero dovuto stare dalla parte giusta della storia: mi proteggevo dietro la scusa dell’età (ero ancora minorenne), pur sapendo anche quando ero piccola che ciò che stavo facendo era sbagliato.

Nel terzo caso trovai l’ipocrisia disarmante, non riuscii a stare in silenzio.

Con gli anni riesumai questo discorso (omettendo nomi e informazioni private che potessero riportare a queste persone) con un’altra persona, e lei mi disse: “sei sicura di essere dalla parte giusta della storia?”

E pensai: come? Non lo sono?

Solo facendo tanto lavoro su di me mi resi conto che era vero, non lo ero.

Il fatto che una bulla appartenesse alla comunità LGBTQIAPK+ non mi dava il diritto di fare outing

Il fatto che un’amica falsa si rivelasse razzista non mi dava il diritto di fare outing etnico.

Ho sbagliato, ho chiesto scusa, e mi sono sempre chiesta se le mie scuse fossero state mai abbastanza.

Il fatto che una persona mentisse sulle sue origini, per quanto fosse triste, non dava il diritto a me di dire le cose come stavano.

Quando riesumai il discorso, la persona con cui ebbi questa discussione mi disse: “c’è tanto self hate, dietro tutte queste azioni, da tutte le parti, e soprattutto c’è una gran desiderio di essere accettat3”.

Capii subito che lei era white passing, anche se per me, avendo una famiglia mista, non pensai mai fosse bianca, pensai solo che era una persona con un nome e cognome white passing come il mio, ma white passing per “ingannare” la maggior parte delle persone ottuse che vivono in Italia.

E cominciammo a parlare, volevo capire cosa spingesse una persona ad agire così, perché non lo capivo, e lei rise.

“Tu hai un nome white passing” mi disse, e rimasi a fissarla in maniera stranita.

“Non ti è mai capitato di entrare in classe, il professore fa l’appello, ti chiama e tu alzando la mano vedi lo stupore di quella persona?” mi disse: pensai di sì, che se mi fossi chiamata con un nome… più “vicino” a ciò che la gente si aspettava, tutto questo stupore non ci sarebbe stato.

Pensai a tutte le volte che le persone vedevano il mio CV, o mi sentivano parlare al telefono e poi, vedendomi, quasi gli uscivano gli occhi fuori dalle orbite. In particolare quando andavo in vacanza al Sud, in Italia, pensavano sempre ad una variazione di un cognome che però avevano visto, Riina o Reina, massimo ad un typo, ma mai che il mio nome per intero fosse in realtà quello di una persona nera.

Pensai alle volte in cui ho visto l’espressione delle persone cambiare quando mi chiedevano come mi chiamavano e l’atteggiamento cambiava dopo che glielo dicevo, e nonostante il “trattamento migliore” riservato pensai a quanto fosse ingiusto.

Ricordo quando andai in viaggio alle Canarie.

La guida turistica lesse i nostri nomi, e leggendo nomi di persone che potevano essere del Sud-Est Asiatico faceva una fatica enorme, in maniera esagerata, e pensai a quanto fosse indelicata.

Infine lesse il mio, disse: “Alicia Reyna, finalmente un nome normale che riesco a leggere”.

Aveva letto Alessia ma pensò che si leggesse Alicia.

Alicia è un nome comune in Spagna, e Reyna è una parola spagnola, cognome comune in un Paese Ispanico, che non ebbe fatica a leggere e mi sentii sollevata dal non sentirmi dire: “come mai quella Y nel cognome?” (una delle domande più stupide che abbia sentito in vita mia). Ero sollevata di non essere stata “messa alla berlina perché diversa”, ma al tempo stesso avevo questo senso di impotenza, perché avevo davanti a me una persona razzista, che aveva sicuramente messo a disagio persone che per lei, avevano un nome “diverso”.

Non ho detto nulla, e mi sono sentita malissimo.

La mia amica mi raccontò di come è dura avere davanti a te dell3 amic3 che parlano di persone nere pensando che tu non lo sia, o che si sentano safe abbastanza da poterne parlare male deumanizzando chi non è come loro.

Mi disse che non doveva essere facile per persone sinti come la mia amica sentire la parola con la Z, sentire deumanizzazione costante e nascondere che lei era “una di loro”.

Pensare cosa avesse spinto una ragazzina Africana a definirsi Latina, ed io in fondo lo sapevo, tutte le persone Afro-Americane che sono nate/cresciute/vissute in Italia lo sanno, quella divisione che ci mettono in testa, che “sei nera ma non vieni… da lì”. 


Me lo hanno detto spesso, in fondo lo capivo, come la gente coltiva il nostro self hate, e ci fa andare l3 un3 contro l3 altr3.

Era devastante.

Poi mi disse: “Immagina di voler bene ad una persona, e scoprire che se fossi nera non ti guarderebbe nemmeno in faccia”

Rimasi scioccata.

Realizzai che le azioni che avevo subito, bullismo e razzismo, erano comunque sbagliate, ma ciò non autorizzava me a ricambiare con la stessa moneta, perchè dietro, da tutte le parti, c’è solo molta gente in survival mode dalla società e dal proprio self hate

Non posso cancellare ciò che feci, ma ciò che posso fare è capire.

Tutt3 noi abbiamo un privilegio, e se questo privilegio lo utilizziamo per andare avanti non va giudicato, ciò che va giudicato e combattuto è il mondo sistematicamente e strutturalmente razzista in cui viviamo.

Ora l’ho capito.

Se mi state leggendo, scusatemi: scusa I.  scusa F. e scusa S.

Ora, ho davvero capito.

ENGLISH TRANSLATION

Title:“Passing,” a Privilege You Can’t Judge

Instagram Caption: Sometimes we have privileges that make us “pass” as less “different” than what society perceives as “different,” and this privilege shouldn’t be judged.

Disclaimer: The term “colour*d” is used intentionally by the creator of this series, an Italian Black woman of Afro-American and Afro-Peruvian heritage. I chose to reclaim these terms, whose violence is no less than the most outspoken slurs. The intention in reclaiming these words is not to trigger readers, so I wanted to explain why I chose to use the terms in this context.

TW Strong language, outing, ethnic outing.

White-passing, hetero-passing, and so on—there are many types of privilege in this world, and one of them (with many subcategories) is looking  “apparently the same as everyone else.”

On Instagram, I’ve already addressed the difference between white-passing and white-presenting. Presenting people look white but don’t go around claiming to be; they’re perceived as such. White-passing people have used their physical traits to avoid systemic and structural discrimination—it’s a matter of survival, which, in the past, could mean life or death in many parts of the world.

The situation hasn’t changed, but the person writing this post lives in a privileged world, in  a country considered part of the so-called “First World”—a world where choosing to be white-passing is more a social matter than alife-or-death one.  

I don’t mean to say that, even today, in the country I live in, there aren’t people who are white-passing out of life-or-death necessity. I’m simply saying that, in my life’s “bubble,” that’s not the case.

Since I was a child, I have always hated people who managed to “pass” as something other than what they were. White-passing people (not white-presenting) who denied their origins, or hetero-presenting people who denied past relationships because they appeared hetero in society’s eyes and not “visibly queer,” annoyed me.

It wasn’t that they could hide their “difference” that bothered me, as some people thought. What irritated me was that, even though they understood what “we others” felt, they behaved exactly like “them.”

They were like moles: they were “one of us” but stood with “them.” All I saw was betrayal.

And when I was younger, I did something I later bitterly regretted and apologized for.

I outed people sexually and ethnically.

Once, I outed someone based on assumptions and situations that had caught my attention, which turned out to be 100% correct. That person was a bully, and I wanted her to taste her own medicine by making insinuations about her, but I had no right to do so.

Another time, I did ethnic outing because a friend turned out to be fake and exhibited racist behaviour toward someone neither of us liked, but anti-Black stereotypes came up. I couldn’t stand the clear anti-Blackness, so I “reminded” her in front of her “new friend” that she was Sinti.

Another time, I met a girl from an African country where Portuguese is spoken, but she pretended to be Brazilian. When I figured it out, I was annoyed, especially since I saw her talking down to other African people, so I directly pointed out that she was African too.

I immediately regretted what I had done. In the first two cases, I hid behind the idea that they should understand how painful racism and discrimination are, and that they should be on the right side of history. I justified it with my age (I was still a minor), although, deep down, I knew even then that what I was doing was wrong.  

In the third case, I was disarmed by the hypocrisy and couldn’t keep quiet.

Years later, I brought up the issue (without naming names or giving identifying details) with someone else, who said, “Are you sure you’re on the right side of history?”

And I thought, what? I’m not?

Only after much self-reflection did I realize she was right—I wasn’t.

The fact that a bully belonged to the LGBTQIAPK+ community didn’t give me the right to out them.  

The fact that a fake friend turned out to be racist didn’t give me the right to ethnically out them.  

I was wrong; I apologized, and I have always wondered if my apologies were enough.  

The fact that someone lied about their origins, sad as it was, didn’t give me the right to reveal their truth.

When I revisited the topic, the person I discussed it with said, “There’s a lot of self-hate behind these actions—from all sides—and a great desire to be accepted.”

I immediately understood she was white-passing, even though, coming from a mixed family, I never thought of her as white. I only thought of her as someone with a name and surname, like mine, that could appear white-passing to most narrow-minded people in Italy.

We started talking, and I wanted to understand what drives someone to act this way because I didn’t get it, and she laughed.

“You have a white-passing name,” she said, and I stared at her blankly.

“Have you ever walked into a classroom, heard the teacher call your name, raised your hand, and seen their surprise?” she asked. I realized that if my name were more “aligned” with what people expected, there’d be none of that surprise.

I thought of all the times people saw my CV, heard me on the phone, and then, when they saw me, their eyes practically popped out.  

I thought of the time I went on holiday in the south of Italy—they always assumed it was a variation of Riina or Reina, or maybe a typo, but they never imagined my full name belonged to a Black person.

I thought about all the times people’s expressions changed when I told them my name and how, despite the “better treatment,” it felt unfair.

I remember a trip to the Canary Islands.

The tour guide read our names, struggled with the Southeast Asian ones, and was overly dramatic about it, which I found very insensitive. Finally, she read mine and commented, “Alicia Reyna, finally, a normal name I can pronounce.”  

She thought Alessia was read as Alicia, which is common in Spain. Reyna is a common Spanish surname, so she had no trouble with it. I felt relieved I wasn’t “singled out for being different,”  or asked, ‘How come that Y in the surname?’ (one of the stupidest questions I’ve ever heard in my life) but at the same time, I felt powerless because I was standing in front of a racist who had surely made others feel uncomfortable for having a “different” name.

I said nothing and felt terrible.

My friend shared how hard it is to have friends who feel safe enough to speak badly about Black people in her presence, dehumanizing anyone different.  

She told me it must be hard for Sinti people, like my friend, to hear slurs and constant dehumanization and hide that she was “one of them.”

I thought about what drove an African girl to say she was Latina, and I knew deep down—everyone born/raised/living in Italy knows it. That division they instill in us, that “you’re Black but not… from there.”

It was said to me often, and I came to understand  how society fosters self-hate and pits us against each other.

It was devastating.

Then she said, “Imagine loving someone, then realizing that if you were Black, they wouldn’t even look at you.”

I was stunned.

I realized that bullying and racism, which I had experienced, were still wrong, but they didn’t give me the right to reciprocate. Behind it all was just a lot of people surviving society and their self-hate.

I can’t undo what I did, but I can understand it.

We all have a privilege, and if we use it to get by, it shouldn’t be judged. What should be judged and fought is the systematically and structurally racist world we live in.

Now I get it.

If you’re reading this, I’m sorry: sorry, I., sorry, F., and sorry, S.

Now, I truly understand.


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